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L'evoluzione economica e sociale in cinque secoli di storia. un contributo per l'Italia di oggi

22 Maggio 2011 - Penna San Giovanni: “Evoluzione economica e sociale in cinque secoli di storia”Domenica 22 Maggio , nel Teatro Comunale “ Flora” , l’Associazione Culturale “Centro studi Giuseppe Colucci” , l’Ufficio della Pastorale Sociale e del Lavoro e dell’Ambiente dell’Archidiocesi di Fermo, con il contributo di “Melania Group S.P.A.” hanno realizzato un Convegno : “Evoluzione economica e sociale in cinque secoli di storia” con il desiderio di contribuire a trovare nelle radici storiche del nostro paese, nei periodi di grandezza dove esso esprimeva primati nell’arte, nell’economia, nella cultura, nelle scienze etc.. e nella crisi del ‘600 che l’ha visto soccombere alle altre potenze, suggerimenti per questa nostra attuale situazione di crisi. Nell’introduzione Don Paolo Bascioni, assistente dell’Ufficio della Pastorale, afferma che molte sono le analisi della crisi che stiamo vivendo, ma questa scelta costituisce un punto di vista diverso. Don Paolo afferma come oggi nel proiettare l’Italia nel futuro si parla solo di operazioni economiche e finanziarie, come se il fattore umano non avesse più nessuna importanza. Per questo ci sembra ancor più importante sottolineare invece la condizione umana della nostra società nei prossimi cinquant’ anni, e quanto essa influirà sulle questioni economiche.
I relatori Francesco Maria Chelli, Marco Moroni, ambedue prof. dell’Universita Politecnica delle Marche, ed il dottor Marco Cannella , presidente dell’ordine dei commercialisti di Fermo, nella diversità ma nella complementarietà delle loro relazioni, hanno reso il Convegno particolarmente interessante.
Nella prima relazione il prof. Francesco Chelli fotografa proprio la situazione demografica del pianeta parlando dei trend demografici e sottolineandone alcuni.
Il primo riguarda l’invecchiamento della popolazione
22 Maggio 2011 - Penna San Giovanni: “Evoluzione economica e sociale in cinque secoli di storia”Egli afferma che esso è uno dei megatrend più rilevanti e rivoluzionari del nostro pianeta , è una situazione di cui si parla molto poco ma che avrà una grandissima influenza sulla generazione dei flussi migratori; egli ha tracciato una visione di ciò che accadrà nei prossimi cento anni: affermando che le stime che sono uscite il 3 Maggio, sono delle Nazioni Unite hanno poca variabilità e spiegano come la popolazione mondiale nel 2100 raggiungerà i dieci miliardi di individui; ciò è stato calcolato in base al tasso di fecondità che consentirà i livelli di sostituzione cioè, rimpiazzare le vecchie generazioni con le nuove.
In molti paesi, specie in Occidente, la fecondità è sensibilmente al di sotto del livello medio e le popolazioni sono irrimediabilmente più vecchie.
Nelle aree sottosviluppate il livello di fecondità è cresciuto più rapidamente e ciò non tutti lo hanno capito.
22 Maggio 2011 - Penna San Giovanni: “Evoluzione economica e sociale in cinque secoli di storia”Nel mostrare una cartina che illustra il tasso di fecondità del pianeta, il relatore afferma che più c’è il colore verde e più il tasso di fecondità è alto: ad esempio l’Afganistan ha un tasso di fecondità superiore a 8 figli per donna. Nel 1950-55 ovviamente già l’Europa ed il Nord America erano verso il bianco, ma in generale in tutto il pianeta il tasso di fecondità superava il livello di sostituzione. Oggi nel quinquennio appena passato 2005-10, l’Africa è ancora un po’ colorata, ma il resto del mondo è quasi tutto bianco e la stima è che nel 2095-2100 sarà tutto bianco. Se questa previsione si avvererà, nel 2100 avremo più di dieci miliardi di persone ma il potenziale di crescita della popolazione mondiale si trova nei paesi ad alto tasso di fecondità. Il sorpasso dei paesi che hanno un alto tasso di fecondità ( l’America latina, alcune zone dell’Asia e soprattutto l’Africa), avverrà intorno al 2050 perché le popolazioni in queste zone avranno di molto superato il potenziale di crescita.
Ciò non può non portarci a considerare anche il rapporto tra la popolazione e la superficie dei paesi : nel 1950 l’Asia aveva la metà della popolazione, l’Europa il 21% e l’Africa ne aveva nemmeno la metà dell’Europa.
Nel 2050 l’Europa ne avrà il 7%, l’Africa il 23% e supererà per 3 volte quella dell’Europa; nel 2100 l’Asia avrà perso la metà della popolazione del pianeta, ma continua a guadagnare l’Africa fino al 36%.
Primo punto di riflessione: “Se lo spazio è lo stesso, dove finirà questo 36% di popolazione Africana?”
Ancora un dato ci viene offerto dalla considerazione che scendendo il livello di fecondità non si raggiunge il livello di sostituzione ed avremo una popolazione invecchiata.
Dai grafici emerge come in Europa il 30% delle persone hanno 60 anni e siamo arrivati a questo punto perché la fecondità che negli anni 50 era al di sopra del livello di sostituzione e che ha iniziato ad oscillare già negli anni 80, è sceso al di sotto del livello ed anche se ora sta leggermente crescendo, questa crescita non riesce a mantenere il livello di sostituzione.
Tra le dinamiche c’è anche il fatto che la vita media si allunga e la speranza di vita per i 60enni è del 19%, e gli ottantenni hanno ancora 8 anni di speranza di vita, quindi la popolazione invecchia rapidamente. Nel 2050 si prevede il passaggio dal 19% al 22% per i settantenni
E si amplia pure la forbice tra i maschi e le femmine che hanno più speranza di vita.
 Anche in Cina nel 2050 i vecchi supereranno il 40% della popolazione.
Nel 2050 il numero delle persone in età lavorativa saranno pochi in confronto alle persone anziane.
Nelle Marche nel 2007 c’è già solo 1,7 persone in età di lavoro su una persona anziana. In seguito anche questo dato diminuirà.
Nel 2050 avremo tanti anziani sessantenni e tante donne ottantenni, gli uomini per lo più saranno sposati, le donne per lo più saranno sole.
Nei paesi sottosviluppati tantissimi saranno i vecchi che lavorano, non per scelta, ma per fame. Quali le conseguenze in campo economico? Quali le dinamiche che interessa la popolazione?
22 Maggio 2011 - Penna San Giovanni: “Evoluzione economica e sociale in cinque secoli di storia”A questo proposito in Italia si deve fare anche la riflessione sulla sostenibilità del sistema retributivo e dei rischi di quello contributivo. Ricordando che il sistema retributivo riguarda la pensione legata alla retribuzione e che si regge sul fatto che quando si lascia il lavoro, molti altri sono pronti a sostituirci il problema attuale è costituito dal fatto che solo pochi lavorano per quelli che vanno in pensione.
Ed ancora.. cosa ne è del sistema contributivo? La crisi ha influito sui fondi pensione e sui tassi di interesse e danneggia i pensionati e le persone vicine alla pensione. Si informa che c’è stata una perdita media del 17% e che ciò avrà una influenza enorme su coloro che si erano affidati ai fondi pensione privati. Dalla relazione del prof. Chelli ancora un imput: Si è dunque parlato del PIL e si è detto che i fattori economici che contribuiscono al PIL sono:
 1) la produttività ed il numero degli occupati
2) il tasso di attività, ossia quanti occupati ci sono in Italia.
Per aumentare la produttività in Italia dovremo far crescere molto l’occupazione per poi far crescere il PIL, ma dobbiamo anche essere coscienti che crescerà l’immigrazione.
Nel concludere la sua relazione il prof. Chelli indica alcuni settori che potrebbero essere presi in considerazione per aumentare l’occupazione: la popolazione avrà bisogno di investimenti sempre maggiori nel settore alimentare, nei servizi per la terza età e nelle infrastrutture urbane. Si deve investire sì sui megatrend demografici, ma anche diversificare gli investimenti prendendo in considerazione anche i megatrend economici e sociali.
 Questa proiezione nelle caratteristiche della popolazione nei prossimi anni è stata molto importante perché ci ha aiutato a capire chi saranno i destinatari delle scelte che devono essere fatte per affrontare la crisi. Proiettandoci nell’analisi del passato per fare parallelismi con il presente, Don Paolo propone la tesi che le cose sono cominciate ad andar male per l’Italia dopo la scoperta dell’America quando il centro del mondo è passato dal Mediterraneo all’Atlantico. Ma Il prof. Marco Moroni ci propone uno sguardo diverso della crisi del ‘600, delle cause economiche, sociali e culturali che l’hanno prodotta,e come è stata preparata nel tempo.
Egli vuole prendere spunto dalla relazione del governatore della banca d’Italia Mario Draghi, in occasione di una Lectio Magistralis al convegno organizzato dalla facoltà di Economia di Ancona, in ricordo di Giorgio Fùà a 10 anni dalla sua morte, sul tema: “ Sviluppo economico e benessere”.
Si riferisce che Draghi ha innanzitutto voluto richiamare il tema degli indicatori di benessere. Condividendo le critiche che negli ultimi anni sono state avanzate al PIL come unico indicatore di sviluppo; infatti è noto che le Nazioni Unite utilizzano un indice diverso, cioè l’indice di sviluppo umano, considerando il livello di istruzione e la speranza di vita alla nascita. Si ricorda che lo stesso Fuà,nel 1994,, aveva affermato: “nei Paesi ricchi dobbiamo smettere di privilegiare il tradizionale tema della quantità di merce prodotta e dedicare maggiore attenzione  ad altri temi che non possono più essere considerati secondari dal punto di vista del benessere collettivo”. Fece due esempi:
1)innanzitutto “il senso di soddisfazione o di alienazione” che si prova nel lavoro;2)l’equilibrio con l’ambiente naturale”.
Dopo questa prima considerazione il prof. Moroni traccia un parallelismo
tra l’Italia di oggi e quella del Seicento, sempre ispirandosi alla lezione di Draghi,che fa esplicito riferimento agli studi di un grande storico dell’economia, a lungo docente a Pavia e negli Stati Uniti e morto qualche anno fa: Carlo Maria Cipolla. Si dice che dopo la grande crescita del basso Medioevo, l’Italia nella seconda metà del 500 era ormai uno dei Paesi più sviluppati al mondo, non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista tecnologico, sociale e culturale. Perché allora entra in una crisi dalla quale non riesce a riprendersi, tanto che, dopo una fase di lungo e lento declino, viene superata da molti altri Paesi e giunge in ritardo all’industrializzazione? Si citano alcuni fattori che hanno influito sulla crisi: la forte pressione fiscale, determinata dal dominio spagnolo, che si mantiene su vari Stati della Penisola per tutto il Seicento e che si trasforma in dominio austriaco nel Settecento. Le potenze dominanti sfruttano economicamente (anche fiscalmente, ma non solo) le ricchezze della Penisola. La frammentazione politica cioè una Penisola divisa in parecchi stati regionali che significa debolezza politica e militare.
Il prof. Moroni invita tutti a ricordare questo motivo, specialmente ora che qualcuno, a 150 anni dall’Unità d’Italia, torna a puntare sulla frammentazione.
Influirono anche alcune cause esterne, come il crollo combinato dei mercati tedesco, spagnolo e turco.
 Il crollo del mercato tedesco è determinato dallo scoppio della guerra dei Trent’anni, nel 1618; quello del mercato turco è frutto di contrasti interni e di un blocco della capacità espansiva; Infine le difficoltà della Spagna, provocate dalla riduzione del flusso di metalli preziosi proveniente dalle Americhe e dalla forte concorrenza dell’Olanda e soprattutto Inghilterra nei mari e nella stessa America.
 Questi i fattori elencati, ma perché a questa crisi, che esplode nella prima metà del Seicento, seguono poi due secoli di stagnazione?
 Volendo sottolineare gli elementi di parallelismo fra l’Italia del Seicento e quella di oggi e magari forzando in qualche punto si può ravvisare che un ruolo negativolo svolsero le corporazioni che bloccarono i mutamenti tecnologici e produttivi che avrebbero permesso alle imprese italiane di competere con la concorrenza straniera; il conservatorismo corporativo si manifestò anche a livello sociale e territoriale . Inoltre molti imprenditori, preferirono puntare su una rendita sicura, investendo nelle campagne anziché nelle nuove fabbriche. Anche molti dei grandi mercanti e banchieri italiani (i genovesi, i fiorentini, i veneziani e i lombardi), preferirono puntare sui maggiori profitti realizzati tramite speculazioni finanziarie anziché nei più rischiosi commerci dove era ormai crescente la concorrenza delle grandi compagnie inglesi e olandesi, sostenute dai loro governi.
 Infine, i politici, non aiutati in modo adeguato dagli economisti del tempo, non compresero che il mercato stava cambiando, era iniziata una “rivoluzione dei consumi” . I produttori italiani puntarono su prodotti di grande qualità, che gli inglesi non erano in grado di realizzare, ma nuovi ceti si stavano affacciando sui mercati, esprimendo una domanda di prodotti non di lusso, ma di media qualità ed a prezzi contenuti. I produttori italiani non seppero approfittare di questa democratizzazione dei consumi che comportava un grande ampliamento dei mercati e furono spazzati via dai cinesi di quel tempo, cioè dagli inglesi.
Perciò quali conclusioni per le difficoltà di crescita dell’economia italiana?
Anche ora stanno cambiando radicalmente gli equilibri economici mondiali. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, la quota europea (dell’area euro) nel PIL mondiale che era pari al 18 per cento nel 2000, scenderà al 13 per cento nel 2015; nello stesso periodo la quota dei Paesi emergenti dell’Asia passerà dal 15 al 29 per cento. Questo mutamento degli equilibri mondiali avrà conseguenze negative su molti Paesi europei. L’Italia ne risentirà più di altri, perché l’economia italiana non solo manifesta da anni una scarsa capacità di crescita, ma non appare in grado di reagire con rapidità agli shok, e con una crescita dell’1 per cento ci vorranno almeno sei anni per tornare al Pil del 2007.E ancora: negli ultimi quindici anni, l’Italia ha subito una evidente perdita di competitività rispetto ai principali partner europei, a causa di una insufficiente crescita della produttività: un fenomeno che caratterizza non solo il Sud, ma anche il Nord della Penisola.
Incidono le ridotte dimensioni di molte imprese, che anche per questo investono poco in innovazione; incide la mancanzadi concorrenza nel settore terziario ed è ormai cessato ogni impegno a liberalizzare il settore dei servizi; anche oggi incide la forte pressione fiscale, che supera di tre punti quella media dell’area dell’euro, incide l’inefficienza della pubblica amministrazione; incide anche la scarsa efficienza del sistema scolastico, che non premia il merito.
Infine incidono le condizioni del mercato del lavoro, dove “vige il minimo di mobilità a un estremo e il massimo di precarietà all’altro estremo”.
La disoccupazione giovanile sfiora il 30 per cento. I salari d’ingresso dei giovani sul mercato del lavoro, in termini reali, sono fermi da oltre un decennio su livelli al di sotto di quelli degli anni Ottanta”.
Si è di fronte, a uno spreco di risorse che avvilisce i giovani e intacca gravemente l’efficienza del sistema produttivo”. Si sottolinea come anche oggi non mancano imprenditori che hanno tirato i remi in barca e puntato su rendite sicure; così come non mancano coloro che hanno preferito i facili guadagni delle speculazioni finanziarie; il conservatorismo delle corporazioni di oggi certo non sta favorendo il merito. Lo spreco dei talenti di tanti giovani lo conferma. Si afferma che cultura, conoscenza e spirito innovativo sono i volani che proiettano nel futuro e che la sfida è rafforzare la coesione sociale.
Infine il dottor Marco Cannella, presidente dell’ordine dei commercialisti di Fermo, descrive la struttura economica e sociale del Fermano del terzo millennio. Ci informa che ci sono alcuni distretti nel fermano e nel maceratese che vedono la presenza di molti centri di produttività. Ci sono circa 20.519 imprese. Questo numero di imprese negli ultimi 10 anni non sono cresciute perché la nostra struttura industriale è polverizzata e di mono-prodotto (cappelli e calzature). Inoltre la possibilità di inserirsi dopo gli anni del ‘600 è stato abbastanza facile perché serviva solo lavorare e poco impegno di capitale, invece ora è più difficile. In questi anni assistiamo ad una stasi della produttività. All’interno delle 20.519 aziende, ci sono circa 4.500 manifatturiere, poche turistiche. Ci sono stati passaggi generazionali difficili; ma ci sono piccoli imprenditori che hanno fatto la fortuna del nostro sviluppo, sfruttando anche situazioni ambientali. Le nature giuridiche di queste imprese sono imprese familiari: c’è un imprenditore che nella prima fase è molto egoista, non si affida a menagment esterni. Le nostre imprese creano un substrato culturale, un capitale sociale che è costituito da questa rete di informazione che c’è tra i vari imprenditori e che trasmette fiducia . Anche la delocalizzazione ha potuto mantenere l’innovazione, la forza lavoro; il nostro distretto ha saputo integrare anche le forze straniere . Questi i tre aspetti che costituiscono l’aspetto sociale: la ricerca di innovazione, il contesto e l’ambito familiare. Anche il sistema bancario ha sostenuto le aziende. C’è stato un calo della domanda, si deve ridare fiducia alle aziende, si sta lavorando sul made in Italy e sulla qualità ma ci vuole fiducia ed amore per il proprio lavoro. Questi elementi possono portarci a mantenere i livelli.
Nel dibattito che ne è seguito, si è posto in rilievo come nel mondo dell’imprenditoria non si prendano in considerazione quei fattori umani, tanto importanti anche nell’economia, esposti da Francesco Maria Chelli e Marco Moroni, il problema più importante che si evidenzia è la mancanza di fiducia e la crescita dell’Italia,ma non si tiene sufficientemente conto che i fattori che determinano la crescita , come più volte ripetuto dagli economisti sono l’occupazione , la riduzione della precarietà e l’impiego delle risorse umane, ed uno sguardo più attento al mercato. Ci auguriamo che il dialogo tra imprenditori, analisti e lavoratori, possa iniziare e che tutti si possa comprendere che il cambiamento dipende anche dal senso di responsabilità sociale di ognuno di noi .
Vogliamo concludere con alcune domande che tutti ci dobbiamo porre:
Pensiamo che l’alienazione di una intera generazione di giovani ai quali non si riconosce il diritto al lavoro ed il diritto al riconoscimento dei propri talenti, determini la crescita di una società?
Pensiamo che le operazioni finanziarie possano sostituire l’uomo e determinare la felicità di alcuni e per quanto tempo, ed anche, che tipo di felicità?
Siamo certi che la fiducia del mercato e di uno Stato garantista possa sostituire gli elementi che stanno alla base della fiducia e che sono l’interdipendenza, la responsabilità, la capacità, l’integrità, la credibilità, l’empatia. Non in ultimo la fiducia che ci viene dalla fede , per cui siamo certi che il Signore accompagna e benedice ogni nostro impegno per il bene comune?
A questa riflessione ci accompagna anche Papa Benedetto XVI nella “ Caritas in Veritate”, che al numero 41 sottolinea come “ l’imprenditorialità ha e deve sempre più assumere un significato plurivalente. La perdurante prevalenza del binomio mercato-Stato ci ha abituati a pensare esclusivamente all’imprenditore privato di tipo capitalistico da un lato e al dirigente statale dall’altro…… L’imprenditorialità , prima di avere un significato professionale, ne ha uno umano. Essa è inscritta in ogni lavoro, visto come “Actus personae” per cui è bene che ad ogni persona sia offerta la possibilità di dare il proprio apporto in modo che egli stesso ”sappia di lavorare in proprio”. Non a caso già Paolo VI insegnava che “ogni lavoratore è un creatore”.

Eventi dalla diocesi

20 aprile 09:00 - 12:00

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