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Notiziario Santa Vittoria

LA PAROLA A CURA DI DON ALESSANDRO
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14 DICEMBRE 2014 TERZA DOMENICA DI AVVENTO ANNO "B"

Is 61,1-2a.10-11; Lc 1,46-50.53-54; 1Ts 5,16-24; Gv 1,6-8.19-28


Le letture di questa domenica sono attraversate dal tema della speranza e della consolazione. Abbiamo tutti bisogno di speranza e di consolazione: l’uomo è fatto per la gioia. Ma c’è un problema: quale speranza è vera e non è un’illusione? Dobbiamo ammettere che oggi molte illusioni stanno svanendo, mentre ritorna l’attenzione a valori scartati troppo in fretta: molte persone cominciano a provare nausea della televisione e dei modelli di vita che presenta; molte persone riscoprono il fascino della famiglia fedele e unita; molte persone riscoprono la bellezza del servizio ai poveri, agli ultimi, agli emarginati. Assistiamo ad un vero terremoto nel campo delle speranze umane. 
Ma noi, come credenti, ci chiediamo: la Bibbia cosa dice riguardo alla speranza? E risponde il profeta nella prima lettura: “Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio” (Is 61,10). 
La gioia vera è Dio, perché solo Lui è infinito e il cuore umano è sintonizzato sull’infinito: per questo motivo nessuna cosa o esperienza mondana ci soddisfa pienamente. Ne segue che nessuna felicità è duratura se non poggia su Dio; e nessun dolore è insopportabile quando Dio è al centro della vita. Dio, infatti, non è colui che chiede, ma Colui che dà. Bisogna allora capire che il comandamento biblico: “Amerai Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,4), non è un comandamento a favore di Dio, ma a favore dell’uomo: non è un comandamento che chiede, ma è un comandamento che dona. Infatti l’uomo è chiamato ad amare Dio con tutto il cuore, perché solo così sarà libero, felice, aperto al dono della vita. L’inquietudine, la smania, l’insaziabilità, la tristezza... sono assenza di Dio e si curano soltanto accogliendo Dio. 
Nella seconda lettura l’apostolo Paolo riprende il tema della speranza e lo sviluppa fino a farlo diventare letizia, pace, gioia nel riconoscere il bene degli altri, attesa fiduciosa del ritorno del Signore. Perché? Perché San Paolo è l’uomo che ha trovato il contenuto della speranza: egli ha trovato Cristo. Sarà lui a scrivere: “Desidero morire, per essere con Cristo” (Fil 1,23); e ancora: “Da quando ho conosciuto Cristo, il resto è diventato come spazzatura per me” (Fil 3,8).

San Paolo ci porta a rivedere la nostra posizione davanti alla buona notizia, che è Cristo. 
Fino a che punto Cristo è la nostra speranza? 
Fino a che punto noi aspettiamo il Signore? 
Fino a che punto è entrato dentro di noi l’ottimismo della fede, che illumina il giudizio su ogni avvenimento della vita? 
Il discorso si sposta, allora, sull’accoglienza che noi abbiamo fatto e facciamo a Cristo. In questo ci aiuta il Vangelo. Infatti, attraverso, la vicenda di Giovanni il Battista, il Vangelo ci dice quale è l’atteggiamento che permette di sentire Dio e di riconoscerlo in Cristo. Giovanni è un uomo mandato da Dio per dare testimonianza a Cristo: esattamente come ciascuno di noi. 
Giovanni viene interrogato: chi sei tu? La vita di ciascuno, infatti, fa nascere interrogativi negli altri. Ma attenti bene: quali sono gli interrogativi che noi suscitiamo con i nostri comportamenti? Che cosa avvertono gli altri in noi? Che cosa percepiscono ascoltando i nostri discorsi e osservando le nostre scelte? 
Giovanni risponde: io non sono il Cristo! In questa risposta c’è tutta la grandezza dell’uomo: Giovanni è consapevole di essere un mendicante raggiunto dalla speranza, ma egli non usa la speranza per inorgoglirsi. Giovanni vede la luce, la indica agli altri, ma resta umile per non perdere la luce; Giovanni viene abbandonato dai suoi discepoli che passano alla sequela di Gesù: momento terribile (anche per un santo!), momento di verifica della maturità del suo cuore. Ed egli supera la prova meravigliosamente, senza strascico alcuno di gelosia: egli vede partire i suoi discepoli e ne è felice. 
Perché? Perché Giovanni è forte nella fede, ma nello stesso tempo è umile: egli è forte quando parla di Dio, ma è umile quando parla di se stesso. “Giovanni comprese di non essere altro che una lucerna e temette che potesse essere spenta dal vento della superbia” (S.Agostino). 
Giovanni ci insegna che soltanto l’umile riesce ad accettare la salvezza da un Altro (anche se si chiama Dio) e soltanto l’umile riesce a parlare di Cristo senza appannarlo con il proprio orgoglio. 
La sterilità e l’inefficacia di tanto nostro apostolato non dipende forse dal fatto che non nasce da Cristo e non intende condurre a Lui? Riflettiamoci bene.

BUONA DOMENICA

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