Amoris Laetitia / Blog / Rocco Buttiglione | 10 Settembre 2016

Rocco Buttiglione – Amoris Laetitia. Risposte ai critici – Il testo

Anticipiamo sul blog questo articolo di Rocco Buttiglione in prossima uscita sulla rivista Lateranum nr. 2 del vol. 82 (2016)

La Esortazione Apostolica Amoris Laetitia è stata accolta in genere favorevolmente dal popolo cristiano. Essa ha ricevuto però anche forti critiche da parte di alcuni che vi hanno visto una rottura con l’insegnamento tradizionale della Chiesa ed una contraddizione con il depositum fidei e con l’insegnamento di S. Giovanni Paolo II. Io vorrei tentare di rispondere a queste critiche, in uno spirito fraterno di comune ricerca della verità. Il compito mi è facilitato dal fatto che uno dei critici, quello indubbiamente che ha prodotto la critica più acuta ed approfondita, il Prof. Josef Seifert, è per me un amico di una vita. Prenderò come punto di riferimento il suo articolo Die Freude der Liebe. Freude, Betrübnisse und Hoffnungen1. Divideremo adesso la nostra argomentazione in due parti. Nella prima spiegheremo alcuni aspetti dell’impianto fondamentale della Esortazione, gli aspetti sui quali appunto si dirigono soprattutto le critiche. Nella seconda affronteremo direttamente alcune delle critiche.

I. Alcuni aspetti controversi di Amoris Laetitia

Il vero centro della controversia è l’affermazione della nota 351 al n. 305 che dice che in alcune circostanze dei divorziati risposati possono essere ammessi ai sacramenti. Il testo è così importante che vale la pena di leggerlo per intero:
“A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti” -dice il Papa- è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa2. La nota 351 aggiunge: “In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti”.
Su queste poche righe si è concentrata la polemica, e da queste poche righe io intendo partire, recuperando in corso d’opera alcuni dei contenuti di questa Esortazione Apostolica così ricca di insegnamenti. Cercheremo di leggere il tutto nel frammento, seguendo la grande lezione di H. U. von Balthazar3. Naturalmente non ci riusciremo del tutto e ci tocca lasciare ad altre mani, senz’altro più esperte, il compito di offrire un commentario completo ed una esposizione puntuale di questo testo magisteriale.
Vediamo prima di tutto quello che il Papa non dice. Contrariamente a quello che ha voluto leggere qualche commentatore entusiasta (e qualche altro commentatore scandalizzato) il Papa non dice che adesso i divorziati risposati possono senz’altro accedere ai sacramenti o che viene meno il principio generale per cui atti sessuali al di fuori del matrimonio costituiscono materia grave di peccato. Il Papa è lontanissimo dalla ideologia per la quale la sfera sessuale è sottratta al giudizio morale e la sessualità è una questione meramente privata. È attraverso l’esercizio della sessualità che la maggior parte di noi impara concretamente cosa vuol dire uscire dal carcere del proprio egoismo e vivere la vita come dono amando una persona dell’altro sesso, generando dei figli, costruendo quella fondamentale realtà di comunione che si chiama famiglia. Questo per la Chiesa è un sacramento che si chiama matrimonio. Il sesso è una delle energie fondamentali della vita. È come l’acqua: propriamente incanalata genera frutti di ogni genere, se esce dagli argini può diventare una tremenda forza distruttiva, se ristagna e imputridisce produce malattie e morte. Per questo la Chiesa non rinuncerà mai ad occuparsene ed a sottoporlo ad una regola morale.

Le condizioni generali del peccato mortale.
A me sembra che il Papa abbia voluto ricordare un principio generale del Catechismo della Chiesa Cattolica e sollecitarne una più compiuta ed attenta applicazione pastorale. Il Catechismo ci dice che perché ci sia un peccato mortale sono necessarie tre condizioni: la materia grave, la piena avvertenza ed il deliberato consenso4.
Non vi è dubbio che nel caso dei divorziati risposati (salvo il caso che il primo matrimonio sia invalido) vi è materia grave di peccato. È possibile però che manchino le altre due condizioni del peccato, che manchi cioè la piena avvertenza o il deliberato consenso o ambedue. In questo caso non si avrebbe un peccato mortale e il battezzato potrebbe essere lecitamente ammesso ai sacramenti. Non vi sarebbe alcun sacrilegio (come invece paventano molti) perché il battezzato sarebbe in grazia di Dio, anche se in una condizione irregolare davanti alla Chiesa e davanti al mondo. Non cambia la teologia del matrimonio. Il matrimonio rimane indissolubile, gli atti sessuali al di fuori del matrimonio rimangono condannati; semplicemente, ciascuno al suo livello di responsabilità, i vescovi ed i sacerdoti sono invitati a considerare la possibile esistenza di circostanze che annullano o diminuiscono la responsabilità soggettiva della persona.
Non è che i divorziati risposati fino alla Amoris Laetitia fossero in peccato mortale e adesso invece non lo sono più. Quelli di loro che erano in una condizione di peccato mortale ieri lo sono anche oggi. Quelli che erano in grazia di Dio ieri a causa della mancanza dell’elemento soggettivo del peccato (piena avvertenza e deliberato consenso) lo sono anche oggi.

Cosa cambia?
Allora non cambia nulla? No, qualcosa cambia e qualcosa di non poco conto. Fino a ieri la Chiesa escludeva i divorziati risposati dalla possibilità di esporre al confessore le proprie ragioni e di ricevere, eventualmente, l’assoluzione. Lo faceva per buone ragioni. La Chiesa è una società visibile. Un divorziato risposato vive pubblicamente in uno stato che fa ragionevolmente presumere una condizione di peccato mortale. Se viene ammesso ai sacramenti questo può indebolire nella coscienza dei fedeli la convinzione della indissolubilità del matrimonio. Non si tratta solo del peccato di adulterio (che è cosa grave già di per se). C’è qualcosa di più, anzi molto di più. Il matrimonio fra battezzati è un sacramento, segno dell’unione di Cristo con la sua Chiesa. Gli sposi si promettono sull’altare fedeltà e sostegno in tutte le vicende della vita, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia. Ognuno di essi diventa per l’altro un testimone privilegiato, particolarmente responsabile, dell’amore di Dio per lui. L’amore dello sposo per la sposa (e viceversa) è segno dell’amore di Dio per lei ed attraverso di esso passa realmente l’amore di Dio per lei. Dio stesso conferma questo amore5. Abbandonarla è, in qualche modo, venire meno ad un impegno preso con Dio stesso che la ha affidata allo sposo. È una suprema contro/testimonianza. È come dire che non è vero che Dio la ama. Questo è il proton pseudos, la prima e fondamentale menzogna che il diavolo tenta di insinuare nella coscienza di ogni uomo per indurlo alla disperazione. Egualmente terribile è la contro/testimonianza verso i figli la cui sicurezza umana e la cui certezza di Fede si appoggia all’amore del padre e della madre verso di loro. Non l’amore di ciascuno dei genitori separatamente verso i figli ma il loro amore l’uno per l’altro che si riversa sui figli ed è la ragione umana della loro esistenza. Se la famiglia è Ecclesia domestica la rottura del matrimonio ha in se qualcosa del sacrilegio. Tutto questo è contenuto nel “l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto6”. È per questo che la Chiesa Latina ha escluso dai sacramenti i divorziati risposati. Questo naturalmente non escludeva che essi talvolta potessero essere giustificati davanti a Dio ma la preoccupazione di mostrare con evidenza la fedeltà alle parole di Cristo e la preoccupazione di evitare lo scandalo prevaleva su qualunque altra considerazione.
Questa scelta che è arrivata fino alla scomunica non era priva di controindicazioni e di rischi. Il divorziato risposato che fosse eventualmente non pienamente colpevole della sua situazione di peccato rimaneva esposto ad ogni tentazione senza l’accompagnamento della Chiesa e senza il sostegno dei sacramenti. Era possibile che si perdesse non per la colpa iniziale, della quale non portava la piena responsabilità, ma per le altre vicende e tentazioni della vita che doveva affrontare da solo proprio a causa della scomunica. La preoccupazione di difendere il bene della indissolubilità del matrimonio nella coscienza dei fedeli induceva (legittimamente) ad affrontare questo rischio.
Negli ultimi decenni la piaga del divorzio si è diffusa enormemente, anche fra i cattolici. È aumentato di molto, di conseguenza, anche il numero di coloro che si trovano esclusi dalla vita ecclesiale senza colpa grave. Respingere i divorziati risposati dalla comunità ecclesiale, inoltre, ha come conseguenza il fatto che dalla educazione cristiana e dai sacramenti sono spesso esclusi anche i figli, che certo non hanno alcuna colpa.
Con il nuovo Codice di Diritto Canonico S. Giovanni Paolo II ha tolto la scomunica ai divorziati risposati e con la Esortazione Apostolica Familiaris Consortio (n.84) li ha invitati a partecipare alla vita della Chiesa, ad educare cristianamente i loro figli, a non disperare della salvezza. È stata una rottura con una prassi secolare che ha richiesto decisione e coraggio. In questo Amoris Laetitia continua una linea pastorale iniziata da Familiaris Consortio. Certo la apertura di Giovanni Paolo II aveva un limite. Il n. 84 di Familiaris Consortio esclude i divorziati risposati dalla comunione, salvo il caso in cui decidano di rinunciare ai rapporti sessuali. La scomunica, in un certo senso, non è tolta del tutto. Amoris Laetitia invece li ammette alla confessione dove potranno dire le loro circostanze attenuanti, se ne hanno, e ricevere l’assoluzione, se esistono le condizioni per darla. Facendo uso della facoltà di sciogliere e di legare datagli da Gesù, S. Giovanni Paolo II ha fatto una scelta disciplinare e Papa Francesco ne ha fatta una diversa. Entrambi condividono la base della teologia del matrimonio che non cambia e una visione equilibrata della teologia morale in cui si deve dare il giusto peso sia al lato oggettivo dell’azione (la materia grave) sia al lato soggettivo (la piena avvertenza ed il deliberato consenso).
Su questo ultimo punto vale la pena di spendere qualche parola in più.

Amoris Laetitia contraddice S. Giovanni Paolo II sul tema della teologia della situazione?
Alcuni critici hanno voluto vedere in Amoris Laetitia una contraddizione con la ferma presa di posizione di S. Giovanni Paolo II contro la teologia della situazione contenuta nella enciclica Veritatis Splendor.
La teologia della situazione nega la possibilità di giudizi universali nell’etica, cioè di giudizi che valgono sempre e comunque (in tedesco: allgemeingültig). I giudizi morali, secondo questa posizione di pensiero, varrebbero in generale (sarebbero im allgemeinen gültig) ma la vera qualifica morale di un atto deriverebbe da una attenta valutazione della situazione. Al situazionismo nell’etica si collega l’etica delle conseguenze. Valutate tutte le possibili conseguenze dell’azione, buona sarebbe l’azione che genera più conseguenze positive che negative sulla base appunto della situazione concreta nella quale si trova l’agente. Non vi sarebbero dunque azioni che sono sempre e in assoluto malvagie (intrinsice mala). È sempre possibile immaginare situazioni nelle quali azioni altrimenti malvagie sarebbero invece buone. L’unica cosa incondizionatamente buona sarebbe alfine una volontà ovvero una intenzione buona.
S. Giovanni Paolo II difende invece la tesi per la quale alcune azioni hanno una loro struttura propria che fa in modo che debbano necessariamente ed in ogni caso essere malvagie. Sono, in genere, le azioni che vengono proibite nel decalogo con la formula del comando negativo: non uccidere, non rubare, non commettere adulterio etc7…. Papa Benedetto XVI, e prima di lui, il Card. Ratzinger, traduce questo, in un certo senso, nella tematica dei valori non negoziabili8. Nei comandamenti positivi viene prescritto un fine ma esistono molti modi di realizzarlo e solo in una situazione concreta si può decidere quale sia il modo più opportuno per realizzarlo. Qui è giusto fare un bilanciamento dei valori in gioco e decidere di conseguenza. Nel caso del “non uccidere” invece non c’è bilanciamento, non c’è un più o un meno. O si uccide o non si uccide e se la vita dell’uomo è un valore assoluto spegnerla è sempre male. Esistono dunque azioni intrinsecamente cattive.
S. Giovanni Paolo II non ha però mai inteso spingere la polemica contro il soggettivismo nell’etica fino al punto di negare il ruolo della coscienza e l’importanza delle circostanze9. La coscienza non crea il valore morale dell’azione ma semplicemente lo riconosce. La coscienza tuttavia può sbagliarsi nel suo giudizio. Anche se si sbaglia, tuttavia, la coscienza deve essere seguita e chi la segue non è soggettivamente colpevole anche se ciò che fa è ingiusto oggettivamente10. Le circostanze dell’azione, nella misura in cui influenzano la intelligenza e la libertà dell’agente, intervengono non a definire la qualifica morale dell’atto ma sì il livello di responsabilità dell’agente. Esse possono aggravare o diminuire la responsabilità dell’agente. Noi dobbiamo sempre giudicare gli atti come buoni o cattivi e dobbiamo lodarli o censurarli di conseguenza. Dobbiamo invece astenerci dal giudicare le persone perché non sappiamo quale fosse il livello di informazione che avevano nel momento dell’azione e non sappiamo a quali limiti e costrizioni fosse sottoposta in quel momento la loro libertà. Solo Dio conosce fino in fondo il segreto della coscienza dell’uomo. Ciascuno deve tuttavia adoprarsi per darsi una rappresentazione il più possibile esatta del proprio stato di coscienza reale ed il confessore, con la speciale assistenza dello Spirito Santo, deve accompagnare questo sforzo di chiarificazione. È classica la distinzione fra la intentio operis (il significato oggettivo dell’atto) e la intentio operantis (la intenzione soggettiva dell’agente). La prima ci dice se l’atto sia buono o cattivo. La seconda ci permette di valutare le eventuali circostanze attenuanti o aggravanti. Ancora oggi questa distinzione sta alla base non solo della teologia morale ma anche del diritto penale.
Può anche essere interessante osservare che Karol Wojtyła, nella sua opera filosofica, si è occupato estesamente del fenomeno della emozionalizzazione della coscienza e, in generale, del lato soggettivo dell’azione. Chi agisce sulla base di una coscienza erronea può essere soggettivamente innocente ma fa oggettivamente del male a se stesso e ad altri11.. Il Prof. Tadeusz Styczen usava dire che è “innocens sed nocens”. Può non essere (interamente) colpevole ma ha bisogno di essere aiutato a capire il male che fa, a recuperare la pienezza del suo intelletto e/o della sua libertà.
In conclusione: facendo valere in modo equilibrato il lato oggettivo ed il lato soggettivo dell’azione, Papa Francesco non è affatto in contraddizione né con S. Giovanni Paolo II né con la enciclica Veritatis Splendor. Chi pretende questo confessa automaticamente di ridurre l’insegnamento di Veritatis Splendor ad una etica dell’oggetto senza soggetto. Non è questa l’intenzione di Veritatis Splendor e non è questo lo spirito della filosofia di Karol Wojtyła12 .

L’obiezione di Robert Gahl
All’impianto che qui stiamo proponendo ha fatto obiezione Robert Gahl in un articolo apparso prima in First Things e poi, in traduzione italiana, nel blog di Sandro Magister13.
Gahl dice: nel momento in cui il penitente confessa un comportamento che costituisce materia grave di peccato, commesso senza avere piena coscienza e deliberato consenso, il confessore gli spiegherà la dottrina della Chiesa su quel problema particolare e rifiuterà di impartirgli l’assoluzione se egli non si impegnerà per il futuro ad evitare quel comportamento. In un certo senso non vi sarebbe nessuna differenza rispetto ad un peccato commesso con piena avvertenza e deliberato consenso. Per impartire l’assoluzione non basta infatti la confessione dei peccati. È necessario anche il proponimento di non più commetterne.
Sembra l’uovo di Colombo ma è proprio così? Forse no.

In primo luogo sembra che Gahl non consideri adeguatamente il ruolo della coscienza. È sufficiente che il confessore enunci un principio perché si possa dare per scontato che la coscienza è stata sufficientemente illuminata? Forse no. È possibile che il penitente non comprenda o non accetti l’ammonizione del confessore e rifiuti di promettere che, nella medesima situazione, non si comporterà di nuovo nel medesimo modo. La coscienza sarà illuminata solo nel momento in cui essa avrà dato un assenso reale. Ha il battezzato il dovere di sottomettersi alla parola del confessore anche contro la propria coscienza? S. Tommaso ci dice di no14. Che fare se il penitente non da un assenso reale alla ammonizione del confessore?
È chiaro che in questo caso il penitente può essere in grazia di Dio anche se il confessore gli rifiuta l’assoluzione. Il confessore può però rifiutare l’assoluzione se pensa che questo sia uno strumento che sollecita il penitente ad una riflessione più approfondita che lo porti al riconoscimento della verità oggettiva. È, questa, una strategia pastorale legittima. Può però essere una strategia pastorale altrettanto legittima il dare l’assoluzione impegnando il penitente a continuare una riflessione comune, naturalmente dopo avere controllato che l’obiezione di coscienza sia onesta e non fittizia. Ci sarà un sacrilegio se il penitente che riceve l’assoluzione in queste condizioni riceve la comunione? No, perché il penitente è giudicato dalla propria coscienza e quindi, nel caso in questione, è in grazia di Dio.
In secondo luogo Gahl non considera affatto la seconda parte delle condizioni soggettive del peccato: il deliberato consenso.
È possibile che una persona riconosca che ciò che ha fatto, è sbagliato e tuttavia si trovi in una situazione di dipendenza psicologica, economica, fisica o di altra natura che non le permette di promettere con verità che in futuro eviterà un certo comportamento immorale. Pensate ad una persona che soffra una forma grave di nevrosi o, peggio, di psicosi. Oppure pensate ad una donna dipendente economicamente in modo totale insieme con i suoi figli da un uomo che non è suo marito. Oppure pensate ad una donna che ha creato con un uomo che non è suo marito un tessuto affettivo ed emotivo di amore e di sostegno reciproco in cui i figli crescono e fioriscono. Diremo a questa donna di lasciare il suo uomo? Ella ha l’obbligo morale di evitare rapporti sessuali fuori del matrimonio ma ha anche l’obbligo di non gettare nella disperazione e nella miseria i suoi figli ed anche un uomo che, magari in modo sbagliato, la ama.
Il confessore non le dirà che va bene così ma forse non le rifiuterà l’assoluzione se essa si impegnerà a trovare una via d’uscita dalla situazione di peccato nella quale si trova.
Forse la inviterà ad affrontare con il suo uomo il problema dicendogli che vuole essere sposata e costituire una famiglia regolare. Se il suo uomo è già sposato forse le dirà di affrontare il problema con lui invitandolo a chiedere l’annullamento del primo matrimonio, se vi sono gli estremi per farlo. E se non ci sono gli estremi per l’annullamento il confessore forse dirà alla sua penitente di prendere il coraggio a due mani e spiegare al suo uomo che lo ama ma crede che Dio li chiami ad una forma di amore particolarmente difficile in cui non c’è posto per i rapporti sessuali. Gli stessi ragionamenti valgono naturalmente nel caso di un uomo che si trovi in una situazione analoga.
Non sarà facile e non avverrà da un giorno all’altro.
Non stiamo dicendo che ci sono situazioni in cui c’è solo la scelta fra un peccato ed un altro. Con l’aiuto della grazia di Dio c’è sempre una via d’uscita per osservare interamente la legge di Dio. Noi però spesso ci mettiamo del tempo per trovarla. Che farà in questo tempo il confessore? Anche qui avrà la scelta fra due strategie pastorali egualmente legittime. Se la situazione è tale da comprimere davvero in modo irresistibile la libertà della persona essa è in grazia di Dio perché manca l’elemento soggettivo del peccato mortale. Ciò non vuol dire che il rifiuto della assoluzione non possa essere un modo efficace di spingerla sul cammino della liberazione dai vincoli nei quali si trova.
In questo caso la persona rifiuta di fare una promessa che sa di non potere mantenere e rifiuta di promettere di fare qualcosa che non è un peccato mortale perché ad esso manca il lato soggettivo del peccato, cioè il deliberato consenso. Il penitente sa che il consenso, nella medesima situazione, le sarà estorto nuovamente e lei non sarà in grado di negarlo.
È preferibile la prima o la seconda strategia pastorale? Non lo so. So che a decidere deve essere la autorità legittima: i sacerdoti, i vescovi, il Papa. Non è in discussione la teologia del matrimonio e nemmeno quella del sacramento. È una questione pastorale e di disciplina ecclesiastica. In ogni caso non dimentichiamo che la legge è per l’uomo e non l’uomo per la legge. Un padre sa che deve essere talvolta severo e talvolta misericordioso se vuole educare il figlio ed accompagnarlo verso la piena maturità umana e cristiana. E ogni volta si domanda se ha fatto la scelta giusta o la scelta sbagliata, se è stato severo quando invece doveva essere misericordioso o misericordioso quando invece doveva essere severo. Per fortuna nella famiglia c’è un padre ed una madre e ci si possono dividere i ruoli e gli interventi. Per il confessore è ancora più difficile perché deve essere al tempo stesso padre e madre. Ha però una particolare assistenza dello Spirito Santo attraverso il sacramento dell’ordine.
Per fortuna, perché ne ha davvero bisogno.
Lasciamo stare adesso Robert A. Gahl jr e torniamo all’asse principale del nostro discorso.

Quali sono i divorziati risposati che possono fare valere delle circostanze attenuanti?
Abbiamo parlato fino ad ora in generale del lato soggettivo dell’azione e delle condizioni perché esista un peccato mortale che comporta la esclusione dai sacramenti. Proviamo adesso a domandarci quali possono essere le condizioni attenuanti che possono valere nel caso specifico di cui ci stiamo occupando. Sappiamo che Papa Francesco non vuole dettare una normativa e non vuole impigliarsi in una casistica. Vuole solo (solo!) svegliare l’attenzione dei confessori al compito pastorale di discernere insieme con il penitente il suo effettivo livello di colpa e la portata dell’impegno che gli è richiesto per rimettersi sul cammino della salvezza. Noi ci permetteremo però di ragionare su alcune situazioni tipiche. Lo faremo senza la pretesa di trarre alcuna conclusione normativa, solo per segnalare che in quei casi è possibile che la valutazione delle circostanze soggettive del peccato possa risultare particolarmente importante.

Quelli dei quali è dubbia la validità del primo matrimonio
In primo luogo viene in mente la situazione di coloro che contraggono il matrimonio senza un sufficiente livello di consapevolezza di quello che fanno. Un matrimonio fra due battezzati è sempre un sacramento ed è quindi indissolubile. Perché sia indissolubile è tuttavia necessario che sia un vero matrimonio. Oggi noi abbiamo vaste masse di battezzati non evangelizzati. È una conseguenza del fatto che veniamo battezzati ancora bambini. Nella Chiesa delle origini non si nasceva cristiani. Lo si diventava e prima del battesimo c’era il catecumenato15, in cui si veniva evangelizzati ed istruiti nella fede cristiana. Fin dall’inizio, però, i bambini venivano battezzati insieme ai genitori e la pratica del battesimo dei bambini si è presto generalizzata16. Questo corrisponde, del resto, a una profonda verità ecclesiologica: l’atto di Fede ha una natura insieme individuale e sociale che corrisponde al carattere insieme individuale e sociale della persona umana.
Il battesimo dei bambini comporta però un problema. I bambini non sono in grado di formulare un atto di fede e di assumere su di se la responsabilità del battesimo. I bambini sono battezzati, in un certo senso, nella fede dei loro genitori. I genitori (ed i padrini) assumono l’impegno di educare cristianamente i bambini e di accompagnarli fino alla maturità della fede. Che succede se i genitori non mantengono questo impegno? O se lo mantengono solo in un modo superficiale, in modo tale che alcune nozioni sono sì portate a conoscenza del bambino ma non accettate e fatte proprie con un consenso reale? Abbiamo un popolo di battezzati non evangelizzati. Per questo nascono movimenti di seconda evangelizzazione o di evangelizzazione di battezzati adulti. È valido il matrimonio fra battezzati che non hanno la fede? È valido il matrimonio fra battezzati che hanno una fede bambina e non sono consapevoli di quello che veramente è il matrimonio/ sacramento? Una volta tutto il contesto sociale aiutava a vedere la verità sul matrimonio. Oggi, se mai, è vero il contrario. Naturalmente non bisogna esagerare: in molti casi un consenso matrimoniale immaturo cresce poi attraverso le prove della vita e diventa alla fine un vero amore coniugale. Tuttavia il problema rimane. Ci si può trovare impegnati nel matrimonio/ sacramento senza averlo mai veramente saputo e voluto. Il problema diventa particolarmente acuto se, dopo il divorzio ed il secondo matrimonio, un battezzato vive una esperienza di conversione e vuole rimettere ordine nella sua vita.
In linea di principio questo problema è diverso da quello del quale ci stiamo occupando. Per esso l’ordinamento canonico offre il rimedio dell’annullamento matrimoniale per il quale di recente le procedure sono state semplificate con due lettere “moto proprio” (di propria iniziativa) di Papa Francesco17. In linea di fatto i due problemi si intersecano. Molti penitenti non conoscono la possibilità dell’annullamento. Che fare con loro nel tempo intercorrente fra il momento in cui il confessore li invita ad iniziare la pratica di annullamento e quello in cui l’annullamento viene loro concesso? Bisognerà chiedere loro di interrompere una convivenza che magari dura da diversi anni? Non dimentichiamo che i ministri del matrimonio sono gli sposi stessi. Se il primo matrimonio è nullo allora la convivenza è già un matrimonio davanti a Dio, anche se canonicamente irregolare.
In molti casi non è possibile o almeno non è facile adire un tribunale ecclesiastico. Che fare con coloro che non hanno questa possibilità? In altri casi ancora il primo matrimonio è invalido (o almeno di questo il soggetto è sinceramente convinto in coscienza) ma non è possibile fornire una prova canonicamente valida (per mala fede dell’altro partner, per smarrimento della documentazione, per morte o irreperibilità o rifiuto di testimoniare delle persone a conoscenza dei fatti). Che fare? Certo, il matrimonio è un fatto pubblico, riguarda tutta la comunità, ed una convivenza che non rispetta le forme proprie del diritto canonico, anche se rispettasse la sostanza del matrimonio, lede un bene pubblico della comunità dei fedeli e merita di essere sanzionata. Ma l’esclusione dai sacramenti non sarà forse, almeno in alcuni casi, una sanzione eccessiva?
La Sacra Congregazione per la dottrina della fede, sotto la guida del Card. Ratzinger, si è posta il problema principale, cioè se ogni matrimonio fra battezzati vada considerato come sacramento e sia quindi indissolubile, e lo ha discusso senza però arrivare ad una conclusione definitiva. Mi sembra però di poter dire che il Card. Ratzinger inclinava piuttosto a credere che non ci fosse matrimonio senza fede e senza consapevolezza di ciò che si stava facendo18.
Nella Chiesa delle origini il matrimonio fra un cristiano ed un pagano poteva essere
dissolto per tutelare la fede del credente. Sono i cosiddetti privilegia paulinum19 e
petrinum20. Cosa faremo nel caso di matrimoni fra un credente ed un battezzato neo pagano? Mi limito ad accennare al problema pienamente consapevole della sua difficoltà e senza nessuna pretesa di dargli una risposta in questa sede.
Per noi è sufficiente mettere in evidenza l’esistenza di un gran numero di persone che hanno bisogno di quell’accompagnamento spirituale di cui parla la Amoris Laetitia. Lungi da me il suggerire che in tutti questi casi sia giusto ammettere la persona alla comunione. Ogni situazione individuale è diversa. Se uno ha chiesto l’annullamento e poi si innamora sicuramente un bravo confessore gli suggerirà di aspettare la pronuncia del tribunale ecclesiastico. Sono meno sicuro di cosa sia giusto fare se una coppia che si è risposata e convive da trenta anni si riavvicina alla fede e chiede l’annullamento di un precedente matrimonio su di una base che appare solida e convincente. L’unica cosa sicura è che Papa Francesco ci dice che ognuno di questi casi ha diritto di essere ascoltato con attenzione e rispetto.

Quelli che hanno distrutto un matrimonio valido ma vogliono tornare alla pienezza della vita cristiana
Il secondo tipo di casi che sicuramente il S. Padre ha in mente è quello delle persone che hanno fatto sciogliere dallo stato un matrimonio che continua ad essere valido davanti a Dio. Queste persone si trovano sicuramente in una situazione oggettiva di peccato. Se non ne sono consapevoli è certo dovere del confessore dirglielo. Può però capitare che pur essendo consapevoli della loro condizione di peccato queste persone facciano fatica ad uscirne perché manca loro la libertà interiore necessaria. Vi abbiamo già accennato rispondendo alle obiezioni di Robert Gahl. Torniamo adesso brevemente sul medesimo tema.
Le ragioni della mancanza di libertà possono essere diverse.
In alcuni casi si trovano in condizioni di dipendenza totale, economica e psicologica dal loro partner. Nel rapporto patologico che hanno instaurato la loro libertà non conta. È opportuno focalizzare tutta la attenzione sui rapporti sessuali che hanno? Immaginate (e il caso è più frequente di quello che molti pensano) che una donna sia obbligata a subire questi rapporti che non le danno piacere e che la umiliano. Le diremo che ogni volta che viene praticamente violentata all’interno della convivenza essa si macchia di un ulteriore peccato mortale? Non sarà invece giusto chiederle di uscire prima di tutto dalla sua dipendenza e trovare la forza di lasciare quell’uomo che la usa e con ogni evidenza non la ama? Forse sarà opportuno consigliarle una psicoterapia. Forse bisognerà aiutarla a trovare un lavoro ed a rendersi economicamente indipendente. Come ed a che punto nel suo cammino di conversione che è anche un cammino di liberazione umana sarà opportuno offrirle il sostegno dei sacramenti?
Altre volte la dipendenza può avere una forma diversa. Nel secondo “matrimonio” si è instaurata una relazione umana psicologicamente ed emozionalmente autentica che ha tutte le apparenze esteriori di un amore vero. Questa relazione è diventata un “nido” in cui hanno trovato protezione i figli avuti nel primo matrimonio ed altri sono nati. Diremo a questa persona di tornare al primo (e unico vero) coniuge? E se questo non la vuole? Le diremo allora di vivere con l’altro “coniuge” come fratello e sorella, rinunciando ai rapporti sessuali? È un sacrificio gravoso ma è anche una penitenza ben giustificata se si pensa a come sia grave ed orribile il peccato di avere rotto il primo (e unico vero) matrimonio, naturalmente nel caso che essa sia stata coprotagonista e non vittima incolpevole della rottura. Ma… e se l’altro non accetta? Che fare se il secondo “coniuge” si rifiuta, si considera tradito, minaccia di distruggere il “nido” che insieme hanno costruito? Che fare se davanti a questa prospettiva perde la sua energia di vita? Può una donna (o un uomo) imporre questa decisione a chi visceralmente la rifiuta? La donna (o l’uomo) si trova in una situazione difficile. Ha il dovere di astenersi dai rapporti sessuali ma anche quello di non distruggere il “nido” in cui i figli crescono verso la loro maturità umana e cristiana e quello di non gettare nella disperazione una persona che la ama, che lei ama e che è il padre dei suoi figli. Amare non è mai sbagliato, ed è ben possibile che in una simile situazione sia cresciuto un amore vero che è qualcosa di prezioso e che merita di essere preservato, che è fonte di molti valori. È un amore di tipo particolare, che per essere pienamente vero chiede la rinuncia ai rapporti sessuali.
Cosa deve fare un confessore se la donna è consapevole del proprio peccato, disponibile a rinunciare ai rapporti sessuali ma sente di non poterlo fare senza il consenso del secondo “marito”? Non è in questione solo il fatto che l’uomo potrebbe cercare altrove una soddisfazione sessuale e questo alla lunga distruggerebbe il nido e farebbe venire meno ai figli il sostegno loro dovuto. È da considerare anche la ferita alla relazione interpersonale che si è creata. Il rapporto interpersonale fra la donna e il secondo “marito” è anche esso un valore fatto di amicizia, dedizione, aiuto reciproco, riconoscenza, fiducia. Sbagliato è il rapporto sessuale ma non l’amore. Come districare questa amicizia interpersonale dalla sua componente sessuale? Come (soprattutto) salvaguardare l’ambiente di vita che consente ai figli di avviarsi serenamente verso la loro maturità umana? Come evitare loro il trauma di una dolorosa separazione (che per quelli di primo letto sarebbe la seconda) con tutte le possibili disastrose conseguenze? Questo è il problema morale davanti al quale si trovano tanti uomini e tante donne che cercano sinceramente di tornare ad una pienezza di vita cristiana. Certo, la grazia di Dio apre sempre un cammino verso la perfezione. Non è detto però che noi questo cammino riusciamo immediatamente a vederlo ed a praticarlo e che in questo tempo intermedio il livello di responsabilità soggettiva non cada al di sotto della soglia del peccato mortale. Il problema pastorale è esattamente quello del “che fare” nel tempo intermedio della ricerca. Il partner che inizialmente rifiuta sdegnato l’ipotesi di una convivenza senza rapporti sessuali può progressivamente accettare l’idea della chiamata ad un amore più generoso. Quello, però, che per primo ha sentito la chiamata a tornare alla integrità della vita cristiana ha bisogno di essere sostenuto nel suo difficile cammino per non scoraggiarsi e non perdersi. Sostenuto anche con i sacramenti? In alcuni casi forse sì. Torna qui ciò che abbiamo detto a proposito del battesimo dei bambini. L’atto di fede è l’atto più intensamente personale che si possa immaginare. Nessuno può credere al posto di un altro. Tuttavia è anche un atto sociale, più esattamente un atto comunionale. L’uomo Gesù di Nazareth ha dato la vita per la fede del mondo e ognuno di noi porta una responsabilità per la fede di quelli che il Signore gli ha fatto incontrare nel cammino della vita. Il divorziato risposato che vuole tornare alla pienezza della vita cristiana ha la responsabilità di fare in modo, per quanto possibile, che questo ritorno sia per le persone che costituiscono il suo “nido” una testimonianza convincente che le aiuti sul loro cammino di fede e non invece una controtestimonianza che le allontani dalla fede.
A questo punto nel nostro cammino ci aiuta S. Giovanni Paolo II con una riflessione contenuta nella sua Lettera al Card. Baum. Il Papa parla qui del sacramento della penitenza in generale e non in particolare dei divorziati risposati ma le sue parole acquistano una luce particolare in riferimento ad Amoris Laetitia: la illuminano ed a loro volta ne vengono illuminate come è giusto che sia nella continuità creativa del
Magistero21. Dice S. Giovanni Paolo II: “Conviene … ricordare che altro è l’esistenza del sincero proponimento, altro il giudizio dell’intelligenza circa il futuro: è infatti possibile che, pur nella lealtà del proposito di non più peccare, l’esperienza del passato e la coscienza dell’attuale debolezza destino il timore di nuove cadute; ma ciò non pregiudica l’autenticità del proposito, quando a quel timore sia unita la volontà, suffragata dalla preghiera, di fare ciò che è possibile per evitare la colpa.”
S. Giovanni Paolo II evoca davanti agli occhi della mente un peccatore che vuole sinceramente riconciliarsi con Dio ma sa di essere impegolato in una situazione di peccato dalla quale non sa come uscire. Umanamente non è in grado di promettere che di nuovo, nella stessa situazione, non commetterà di nuovo lo stesso peccato. Tuttavia vuole sinceramente riconciliarsi con Dio e vorrebbe, in un certo senso, essere in grado di promettere con verità. Il penitente promette di “fare il possibile per evitare la colpa” anche se sa che il possibile con ogni probabilità non sarà sufficiente, ma spera che con l’aiuto di Dio, sia possibile trovare un cammino che conduce fuori dalla situazione di colpa.
Non sto dicendo che S. Giovanni Paolo II dice qui esattamente la stessa cosa che dice Papa Francesco. Domando però: esiste davvero una grande differenza fra il dire: “Signore, mi propongo di non avere più rapporti sessuali con il mio compagno anche se so che non sarò in grado di mantenere questo proposito” ed il dire “Signore io non sono in grado di promettere di non avere rapporti con il mio compagno ma ti prego di aiutarmi a cambiare la nostra situazione in modo che io possa promettere con verità?”

Il concetto di peccato sociale
La base teorica di Amoris Laetitia su questo punto è, a mio parere, la connessione fra la dottrina tradizionale sulle tre componenti del peccato mortale ed il concetto di strutture di peccato o di peccato sociale formulato da S. Giovanni Paolo II. La dottrina tradizionale ci dice che le circostanze dell’azione vanno valutate e, attraverso la pressione che esercitano sulla coscienza, contribuiscono a determinare il livello della colpa. Può dunque accadere che circostanze attenuanti ed in particolare un sistema di costrizioni che limitano la libertà della persona degradino quello che sarebbe altrimenti un peccato mortale a peccato veniale. Se però una persona è prigioniera di una struttura di peccato è verosimile che in futuro si troverà nella medesima situazione e compirà la medesima azione sbagliata, avendo di nuovo le medesime circostanze attenuanti. La colpa è sempre individuale. Non si è mai colpevoli per il semplice fatto di essere membri di una società. Tuttavia una determinata struttura sociale può inclinare potentemente al peccato rendendo più difficile all’intelletto il riconoscimento della verità ed alla volontà la decisione di corrisponderle con l’azione. Da un lato la responsabilità per il singolo atto può essere potentemente diminuita, dall’altro insorge un diverso tipo di responsabilità: quella di cambiare la struttura di peccato in modo da rendere più facile l’azione che corrisponde alla verità e realizza il bene. Il concetto di struttura di peccato è stato elaborato inizialmente avendo in mente le situazioni di ingiustizia sociale di alcuni paesi del Terzo Mondo ma presto S. Giovanni Paolo II ne ha visto la valenza più generale. La struttura di peccato è una concretizzazione esistenziale e storica di quella lex fomitis22 che, in conseguenza del peccato originale, sistematicamente ci fa deviare dal bene. Il concetto di struttura di peccato, inoltre, ci obbliga a fare i conti con il fatto che il peccato è un atto sociale, influenza la vita di altri esseri umani e li inclina al male, ma anche la conversione è un atto sociale, inclina al bene la vita di altre persone. Se veramente vogliamo il bene non possiamo non sentire nella nostra azione questa responsabilità comunionale, questa partecipazione all’atto di Cristo che salva il mondo.

S. Maria Maddalena e la parabola dei talenti
Nello svolgimento di queste riflessioni ci ha accompagnato costantemente il pensiero di S. Maria Maddalena23, la donna della quale, secondo una lunga tradizione, sarebbero dette le parole di Gesù: “molto le sarà perdonato perché molto ha amato24”. Una grande difficoltà a comprendere l’impianto di Amoris Laetitia è un certo atteggiamento tuzioristico per il quale la finalità prima e forse esclusiva della vita morale è non commettere peccati. Si finisce con il diffidare dell’amore perché l’amore talvolta é disordinato e può contenere in se il rischio del peccato. Il peccato più grande, però, è proprio non avere amato, uscire da questa vita forse immacolati ma certo anche sterili. La idea cristiana del peccato rischia allora di confondersi con quella di una certa purità rituale che appartiene però ad altri orizzonti religiosi non cristiani. Maria Maddalena ha compromesso la purezza rituale e non solo quella. Lo ha fatto perché ha amato. Non ha semplicemente desiderato il soddisfacimento di una pulsione sessuale. Ha cercato appassionatamente il bene di altri esseri umani ed in questa ricerca è inciampata nel groviglio delle sue e delle altrui passioni. Il suo è stato un amore disordinato. Gesù corregge il disordine e salva l’amore.
Il disordine alla lunga avvilisce e spegne l’amore, lo capovolge in indifferenza, disprezzo, odio. La virtù della castità è data non per impedire l’amore ma per proteggerlo25.
Forse a questo punto gli esegeti arricceranno un poco il naso ma io ho sempre visto una connessione fra queste parole di Gesù e la parabola dei talenti26. In genere la si legge come un invito a studiare di più, ad impegnarsi di più per valorizzare i doni che Dio ci ha fatto. Si mette così fra parentesi un elemento decisivo del racconto evangelico: il rischio. Il servo che non ha trafficato il suo talento non era (solo) un pigro che non aveva voglia di lavorare. Era un pavido che non aveva voglia di rischiare. Una chiave importante per intendere la parabola è la domanda: perché gli altri servi hanno il coraggio di rischiare e quello che ha ricevuto un solo talento invece no? Oppure, più radicalmente: cosa avrebbe fatto il Signore al servo a cui aveva affidato 5 talenti se questo, trafficandoli, li avesse persi? La risposta, nella logica del Vangelo, è ovvia: gli avrebbe usato misericordia e lo avrebbe perdonato. La vera colpa del servo che ha nascosto sotto terra il suo talento è non avere avuto fiducia nella misericordia. Così una certa etica tuzioristica si preoccupa di salvaguardare la purezza rituale e di evitare ogni peccato e rifiuta di correre il rischio dell’amore, che non è solo quello sessuale ma in generale l’impegno senza riserve della libertà con un valore e soprattutto con il valore della persona umana. Certo l’amore può essere disordinato e questo è un peccato ma il rifiuto di vivere l’amore è il peccato più grande. Per questo i pubblicani e le prostitute precederanno i farisei nel Regno dei Cieli27 .
C’è nella letteratura polacca un’opera singolare di A. Mickiewicz che K. Wojtyla sicuramente ha conosciuto e amato e sulla quale ha meditato. Il titolo è Dziady che in genere si traduce con Gli Avi. Più che degli avi si tratta delle anime dei trapassati che non riescono a staccarsi dalla terra per salire al cielo. Fra di loro è Zosia che è una specie di antitesi di Maria Maddalena. Zosia non ha mai amato e proprio questo è il suo peccato28.

Una prima conclusione provvisoria: Amoris Laetitia non cambia nulla… Riassumendo: Amoris Laetitia non cambia nulla nella teologia del matrimonio. Il matrimonio era indissolubile prima e rimane indissolubile anche dopo questa Esortazione Apostolica. Atti sessuali al di fuori del matrimonio erano materia grave di peccato prima e lo rimangono anche dopo. Non viene neppure dettata nessuna speciale disciplina rispetto alla valutazione di eventuali circostanze attenuanti per questo particolare tipo di peccati. Valgono, anche nella valutazione delle circostanze attenuanti, esattamente le stesse regole che valgono per qualunque altro tipo di peccato.
Non cambia nulla, allora? Molto rumore per nulla? No, qualcosa cambia ed a giudicare dalla eco che c’è stata, qualcosa di molto importante. I divorziati risposati vengono ammessi non alla comunione ma alla confessione. Nel confessionale potranno dire le loro circostanze attenuanti e, se il confessore le riterrà sufficienti darà loro l’assoluzione e prescriverà loro una penitenza. Prima vigeva un divieto di ascoltare le loro ragioni. Erano, diciamo così, peccatori speciali. Adesso sono peccatori ordinari che vengono trattati come tutti gli altri peccatori. Questa è la novità di questo documento. Una novità certamente non teologica ma disciplinare. Si può essere d’accordo o non d’accordo; si può considerare questa innovazione opportuna o inopportuna ma non si può vedere in essa una eresia perché non altera nulla né della teologia del matrimonio né della teologia del sacramento. Se c’è una innovazione teologica (una innovazione peraltro del tutto tradizionale) questa riguarda l’uso della categoria di strutture di peccato. Questa innovazione, però, risale a Giovanni Paolo II29. La persona che vive in una struttura di peccato porta una responsabilità diminuita per i singoli peccati che commette in quella struttura ed a causa di quella struttura. Questa diminuzione di responsabilità può fare in modo che nonostante la materia grave il peccato possa non essere mortale. La persona può anche trovarsi in una condizione che non le permette di formulare con verità il proposito di non più commettere quella colpa. Deve però impegnarsi a trasformare la struttura di peccato o ad uscire da essa in modo da potere osservare con pienezza la Legge del Signore.
L’uso coerente della categoria “strutture di peccato” mette in evidenza la profonda continuità con l’insegnamento di S. Giovanni Paolo II e mostra anche la vera novità rivoluzionaria di Papa Francesco. Forse molti oppositori, senza rendersene bene conto, resistono proprio a questa novità.

… e pure cambia tutto
Il substrato filosofico fondamentale della teologia morale risale ad Aristotele e, più in là, a Platone. Essi hanno formulato i concetti fondamentali di bene e di male morale, il ruolo delle virtù etc… Essi hanno mostrato che molti aspetti fondamentali dell’etica sono pienamente accessibili ad una riflessione filosofica e che esiste una forte convergenza fra etica razionale ed etica rivelata cristiana. Per tutte queste cose abbiamo nei loro confronti un grande debito di gratitudine. La loro etica ha però un limite fondamentale: è un’etica aristocratica, un’etica per i pochi e per i migliori. Ignorava Aristotele il fatto che vaste masse di uomini vivono in una condizione che non permette o rende comunque difficilissimo l’esercizio della virtù? Non lo ignorava affatto. Per lui era ovvio che la grande massa della gente fossero “schiavi per natura”, incapaci di dominare le loro passioni e di conoscere la verità30 . Per loro non c’era salvezza, non erano soggetti morali. È però possibile che anche l’uomo buono, il filosofo, si trovi imprigionato in una situazione che sembra costringere al male. Che fare? Gli Stoici coltivano la idea del suicidio come “uscita di sicurezza” (èulogos exogé). Se intrappolato in una situazione di peccato che non consente di fare il bene ed impone di fare il male il saggio stoico ha sempre la possibilità di sottrarsi rinunciando alla vita31. Ai cristiani però il suicidio è vietato. Una trasposizione cristiana del suicidio stoico è l’ideale monastico della fuga dal mondo. Esso però è difficilmente generalizzabile alla massa dei fedeli e potrebbe comportare un sottrarsi alla responsabilità per il mondo. Eliot ci dice che:
“anche l’eremita che medita nella solitudine Prega per la Chiesa, corpo incarnato di Cristo32”.
A differenza dell’asceta stoico il monaco cristiano è intimamente unito ai suoi fratelli nel mondo per i quali prega. L’ideale monastico è dunque necessariamente complementare ad un ideale laicale di santità nel mondo e di santificazione del mondo e questo lo differenzia radicalmente dalla rinuncia stoica al mondo che può giungere fino al suicidio. Se non ci fossero i laici non ci potrebbero essere, propriamente, nemmeno i monaci. Ma è possibile essere santi nel mondo?

La morte di Socrate e la morte di Cristo
La differenza fra l’etica classica e quella cristiana è messa bene in luce dal paragone fra la morte di Socrate e la morte di Cristo. Tutti noi conosciamo ed ammiriamo il grande esempio che ci lascia Socrate per il modo in cui muore. Socrate sceglie di morire per non tradire la verità e la coscienza. Molti hanno paragonato la morte di Socrate alla morte di Cristo, non senza ragione. Non molti invece hanno messo a tema la radicale differenza fra queste due morti. Socrate muore la morte dell’uomo libero e del cittadino. Dialoga fino all’ultimo con i suoi amici e la sua morte è, per quanto possibile, libera dalla sofferenza fisica. La cicuta sembra essere uno strumento ideale per assicurare una morte dignitosa33. Gesù muore invece la morte dello schiavo. Prima di morire verrà ingiuriato, spogliato, flagellato, coronato con la corona di spine, inchiodato sulla croce34. La croce è il supplizio degli schiavi. È un elemento fondamentale del sistema della potenza romana. Serve per spezzare attraverso il terrore della sofferenza fisica insopportabile uomini che non hanno paura della morte perché vivono una vita che sembra essere peggiore della morte. Ogni uomo, anche il più coraggioso ed animoso, può essere ridotto attraverso quella tortura ad un ammasso di carne dolorosa disposta a tutto pur di abbreviare quella sofferenza35. La croce non serve solo per dare la morte ma anche ed ancora di più per annientare la dignità in modo che ognuno sappia che non esiste dignità o verità che possa resistere al potere e per la quale valga la pena di resistere al potere. La morte di Gesù capovolge il significato filosofico della croce. Attraverso la morte di Cristo e la sua resurrezione la dignità dell’uomo viene restaurata. Nella sua omelia nel campo di concentramento di Auschwitz, nel corso del suo primo pellegrinaggio in Polonia, S. Giovanni Paolo II ci dice che S. Massimiliano Maria Kolbe, offrendo la sua vita per quella di un altro prigioniero, ha riportato una vittoria spirituale simile a quella di Cristo stesso. Ha capovolto il significato filosofico di Auschwitz ed ha mostrato, in quel luogo creato per dimostrare che l’uomo può essere condizionato attraverso la paura e la corruzione a fare ed a diventare qualunque cosa, che anche in quella situazione estrema l’uomo può conservare la sua intelligenza, la sua libertà e la sua capacità di amare36.
Il problema dell’etica cristiana è dunque simile a quello dell’etica classica ma anche profondamente differente. Come è possibile che gli “schiavi per natura” divengano liberi? Solo per l’azione della grazia. La grazia però raramente penetra di forza in una situazione umana trasformandola in modo radicale da un giorno all’altro. Essa si manifesta per lo più attraverso una presenza ed una compagnia che genera progressivamente un cambiamento di mentalità. Questa è esattamente l’etica pastorale che ispira la Amoris Laetitia.

La scelta fra la colpa grave ed il martirio
Certo: esistono situazioni drammatiche nelle quali la scelta è fra la colpa grave ed il martirio. Nel caso dei divorziati risposati è possibile che queste situazioni siano molto frequenti, siano anche la grande maggioranza dei casi. È però la coscienza del penitente quella che deve riconoscere e sentire questa alternativa. Dio ha illuminato la coscienza di S. Tommaso Moro in un modo tale che egli ha visto chiaramente di dovere sacrificare la propria vita o la propria anima. Altri uomini in una situazione analoga hanno fatto la scelta sbagliata ma forse non hanno perduto la loro anima perché non hanno visto la via della verità e del dovere con eguale chiarezza. È lui stesso a dirlo, nei dialoghi con la famiglia e gli amici che cercavano di convincerlo a sottoscrivere l’Atto di Successione ed elencavano tutte le circostanze attenuanti e le possibili giustificazioni. Egli vede queste ragioni e ne riconosce la plausibilità ma… per qualcun altro, non per se stesso37. Il suo intelletto è abbastanza lucido ed il suo volere abbastanza fermo ed abbastanza in grado di controllare la paura da vedere con chiarezza la verità che lo obbliga. Egli non condanna però quelli che hanno giurato o giureranno. Verrà anche per loro un giorno il tempo di una scelta senza compromessi, il tempo del loro martirio ma forse non è ancora venuto. La intransigenza verso se stessi non sta in contraddizione con la misericordia verso gli altri. C’è un verso bellissimo di Terenzio che possiamo applicare a questa situazione: “aliis si licet, tibi non licet38”.
Dico questo perché, nel momento in cui spieghiamo le ragioni della Misericordia, non dobbiamo dimenticare l’omaggio dovuto a quanti hanno vissuto e vivono la loro condizione di divorziati risposati rispettando eroicamente fino in fondo la legge di Dio e rinunciando ad avere rapporti sessuali con la persona che amano e con la quale hanno costruito un nido per i loro figli o anche accettando una condizione di solitudine. Quello che loro vivono non è un ideale per pochi ma la norma per tutti alla quale tutti i divorziati sono chiamati anche se alcuni al pieno compimento della norma arriveranno attraverso un percorso meno lineare e più tortuoso, quando saranno cresciuti nella intelligenza e nella libertà fino ad una più grande maturità. Quella che Amoris Laetitia propone non è infatti una gradualità della legge, per cui la legge non varrebbe pienamente per alcuni ma una legge della gradualità per cui la coscienza si apre gradualmente alla piena comprensione della legge e la volontà cresce progressivamente nella capacità di sacrificio che la legge richiede39.

II La critica di Josef Seifert

Dopo avere cercato di spiegare la posizione di Amoris Laetitia sul problema della comunione ai divorziati risposati esaminiamo adesso la posizione dei critici e ci affidiamo soprattutto alle critiche formulate da Josef Seifert. Sembra infatti che la sua sia la critica più articolata e fondata, che, in qualche modo, ricomprenda in se tutte le altre, di modo che se essa viene adeguatamente affrontata e risolta si può presumere che lo siano implicitamente tutte le altre. Esamineremo prima la argomentazione di Seifert e poi le ritrattazioni che egli chiede al Papa.

II,I. La argomentazione di Seifert

Quali coppie in situazione irregolare ha in mente il Papa?
Seifert si domanda quali siano le coppie “in situazione irregolare” che potrebbero essere ammesse alla comunione e considera quattro possibilità:
Nessuna coppia in “situazione irregolare” Tutte le coppie in “situazione irregolare”
Solo alcune coppie in “situazione irregolare” dopo un esame del loro livello di colpa soggettivo condotto con l’aiuto di un sacerdote
Solo le coppie convinte in coscienza della invalidità del precedente matrimonio40.

Nessuna coppia in situazione irregolare
Seifert elenca gli interventi di autorevoli teologi che dicono che sostanzialmente con Amoris Laetitia non è cambiato nulla e dice che invece, evidentemente, qualcosa è cambiato. Certamente qualcosa è cambiato e tuttavia non sono sicuro che coloro che dicono invece che non è cambiato nulla si sbaglino. Non è cambiato nulla nella teologia del matrimonio. Non è cambiato nulla nella teologia dei sacramenti. Propriamente non è esatto dire che i divorziati risposati sono ammessi alla comunione. Ciò che cambia è solo un aspetto della disciplina ecclesiastica: adesso sono ammessi alla confessione. Vengano in confessionale a dire le loro ragioni, se ne hanno, e verranno giudicati con gli stessi criteri con cui sono giudicati tutti gli altri peccatori (cioè tutti gli altri esseri umani). Se anche risultasse che non esistono in nessun caso circostanze attenuanti che permettano di dare l’assoluzione (salvo che, ovviamente, non ci si separi e non si accetti di convivere come fratello e sorella) il semplice fatto di poter dire le proprie ragioni al confessore è una apertura di dialogo da non sottovalutare41.

Tutte le coppie in situazione irregolare.
Seifert scarta giustamente la ipotesi che tutte le coppie “in condizione irregolare” vengano ammesse alla comunione. Questo è importante e significativo. Alcuni critici hanno letto la Amoris Laetitia come una specie di amnistia generale per il peccato di adulterio. Seifert giustamente esclude questa ipotesi e questo fa giustizia di molte critiche. Seifert chiede tuttavia che il Papa corregga alcune interpretazioni che hanno inteso Amoris Laetitia in un senso sbagliato. Se davvero quelle interpretazioni meritino di essere corrette e se sia opportuno farlo è cosa di cui noi qui non ci occuperemo. Stupisce un poco che si sia potuto dubitare di una cosa così evidente come il fatto che Amoris Laetitia non contiene una specie di amnistia generale per i divorziati risposati42.Spiace inoltre che Seifert invece di rivendicare con forza il fatto che non c’è nessuna amnistia generale dell’adulterio lo riconosca solo in modo un po’ tortuoso ed a fatica ed alla fine, invece di biasimare quanti hanno calunniato il Papa, se la prenda con lui intimandogli di chiarire.

Alcune persone in situazione irregolare con specifiche circostanze attenuanti
La terza ipotesi è che la Esortazione Apostolica possa raccomandare che alcuni divorziati risposati, nei quali mancano gli elementi soggettivi del peccato mortale, cioè la piena avvertenza ed il deliberato consenso, possano essere riammessi ai sacramenti43. Questa è evidentemente la interpretazione che più si avvicina al contenuto della Esortazione Apostolica almeno nel senso che, se si considerano i divorziati risposati secondo i criteri usuali della teologia morale, è possibile che in un certo numero di casi l’elemento soggettivo del peccato possa mancare. È la tesi che io ho sostenuto in un articolo sull’Osservatore Romano44 che Seifert assoggetta ad una critica puntuale accusandomi di trarre una conseguenza logica errata.

È possibile ignorare i principi morali fondamentali senza colpa grave?
Vediamo. Ecco l’argomento che Seifert attribuisce a me ed a Rodrigo Guerra: “Per commettere un peccato grave si presuppone la conoscenza del fatto che il proprio comportamento costituisce una colpa grave.
Molti divorziati risposati non riconoscono di commettere una colpa grave quando si risposano (senza un annullamento del precedente matrimonio).
Pertanto molti divorziati risposati non commettono nessuna colpa grave quando si risposano.
Essi sono …pertanto in grazia di Dio e devono essere ammessi ai sacramenti45”.
Vi sarebbe in questa argomentazione un falso presupposto implicito ed un uso equivoco del medesimo termine in due significati diversi.
Il falso presupposto sarebbe che la ignoranza sia incolpevole mentre la ignoranza o la cecità ai valori sono (possono essere?) la conseguenza di peccati precedenti. Qui Seifert cita il Catechismo della Chiesa Cattolica: “… Di nessuno si può ritenere che ignori i principi morali fondamentali che sono iscritti nella coscienza di ogni uomo46”.È dunque impossibile che vi sia una ignoranza incolpevole della legge morale sulla proibizione del divorzio.
Di conseguenza l’espressione conoscere/riconoscere verrebbe usata con due significati diversi. Nel primo caso si parlerà di un conoscere che è inscritto nella struttura stessa della ragione umana, nel secondo di un (non/ri)conoscere che ha un carattere non trascendentale ma empirico ed è conseguenza del peccato e dell’indurimento della coscienza che esso provoca.
È proprio vero che non è possibile che il soggetto ignori la legge morale e che quindi l’ignoranza della legge possa funzionare come circostanza attenuante? Vediamo cosa ci dice S. Tommaso.

S. Tommaso: ogni uomo conosce i primi principi della legge naturale ma può errare nel trarre le conseguenze dei primi principi
S. Tommaso47

ci dice che la legge naturale consiste di primi principi e di
conseguenze. I primi principi sono comuni a tutti gli uomini e si riducono fondamentalmente al dovere di fare il bene ed evitate il male. Da questi principi derivano poi un numero infinito di conseguenze quando i principi interagiscono con diverse costellazioni di materiale empirico. Le conclusioni della legge naturale divengono sempre più incerte quanto più ci si allontana dai primi principi e ci si inoltra nella selva dei casi particolari, cioè quanto più sono numerose le variabili empiriche delle quali è necessario tenere conto. Ci dice anche che molte cose, in questo ambito, che sono per se note al sapiente che intende esattamente il linguaggio della ragione mentre possono non essere di per se note all’indotto che questo linguaggio non intende o non maneggia con sufficiente precisione. Ci dice infine che “alla legge naturale appartengono, prima di tutto, alcuni precetti più generali che sono noti a tutti e poi, in secondo luogo, certi precetti più particolari e dettagliati che sono conclusioni che derivano direttamente dai primi principi. Per quanto riguarda i principi generali la legge naturale non può, in astratto essere in alcun modo cancellata dal cuore dell’uomo. Può essere invece cancellata nel caso di una azione particolare, nella misura in cui la ragione incontra un ostacolo nell’applicare il principio generale ad un caso particolare della pratica, a causa della concupiscenza o di qualche altra passione… Per quello che riguarda poi gli altri precetti, cioè quelli secondari, la legge naturale può essere cancellata dal cuore umano o da argomentazioni false, proprio come nelle materie speculative degli errori possono avvenire riguardo alle conclusioni necessarie, oppure a causa di costumi corrotti o abitudini di vita viziose48…”.
Ha ragione Seifert (ed il Catechismo della Chiesa Cattolica) nel dire che i primi principi sono di per se noti? Certo che ha ragione. È possibile che la persona si sbagli nell’applicare il principio ad un caso particolare? Certo che è possibile, soprattutto se si è indotti. È possibile che l’ignoranza sia la conseguenza di una colpa? Certo che è possibile, come per esempio quando uno studente avrebbe dovuto studiare e non lo ha fatto. È la ignoranza sempre conseguenza di una colpa? No, in molti casi non lo è. Non lo è soprattutto nel caso dei battezzati non evangelizzati i quali non hanno mai appreso la dottrina cristiana. È tranquilla la coscienza di chi si trova nell’ignoranza? Probabilmente no. La legge naturale è presente in potenza, teoricamente, nella ragion pratica ma non lo è (pienamente) come habitus di vita. È probabile che la persona viva un certo disagio che può diventare il punto di partenza di un insegnamento che illumini la coscienza. Per questo abbiamo sempre parlato, più che di circostanze esimenti (che annullano la colpa) di circostanze attenuanti (che riducono la colpa, forse al di sotto della soglia del peccato mortale).
In conclusione: la coscienza non può ignorare i primi principi ma può sbagliare nell’applicarli ad un caso particolare o anche ad una intera serie di casi particolari. La coscienza erronea obbliga. L’errore della coscienza, tuttavia, non è mai invincibile (può essere invincibile provvisoriamente ma non per sempre). La presenza dei primi principi nella ragion pratica fa in modo che esista sempre un punto di appoggio per l’argomentazione che conduce dall’errore alla verità.
S.Tommaso49 ci lascia inoltre una distinzione preziosa. Egli si domanda se la legge naturale sia un habitus e risponde che propriamente non lo è perché la sua sede propria è la ragion pratica. Possiamo però dire che la legge naturale è un habitus se vogliamo indicare in questo modo i contenuti della legge naturale che ci siamo appropriati nella forma di habitus e che ci sono effettivamente presenti. In altre parole: i principi sono sempre presenti nella ragione pratica, la abitudine ad applicarli ai casi particolari e quindi la capacità di riconoscerli in concreto può invece mancare. Questa distinzione ci aiuta a capire come sia possibile che la legge naturale che effettivamente da forma alla nostra coscienza morale sia così differente e difettiva rispetto alla legge naturale intesa come contenuto del nostro intelletto e della nostra ragion pratica. La tensione fra queste due modalità di predicazione della legge naturale in noi spiega molta parte del dinamismo della nostra vita morale.
L’insegnamento che ci dà S. Tommaso su questo punto è profondamente coerente con un cardine fondamentale del suo pensiero: hic homo intelligit50. Il pensiero è un atto umano individuale. Nessuno può pensare al posto di un altro e non posso attribuire ad un altro essere umano un pensiero che questo non abbia formulato. Per tornare al mio articolo che Seifert critica, io non ho mai pensato che i primi principi potessero essere cancellati dalla ragion pratica dell’uomo. Ho semplicemente detto che è possibile errare senza colpa nell’applicare i primi principi ad una situazione particolare. Di questo, infatti, è non di altro si tratta. L’uomo che può avere sbagliato senza colpa non è in genere un professore di filosofia o di teologia che si costruisce una teoria generale per giustificare la sua situazione particolare ma un povero essere umano che non è riuscito e ancora non riesce a portare un giudizio vero sulla sua situazione particolare.
S. Tommaso ci dice però ancora qualcosa d’altro su cui adesso dobbiamo portare la nostra attenzione. Fino ad ora abbiamo parlato dei primi principi ed abbiamo visto che non sempre è facile capire come si applicano alle situazioni particolari. Adesso veniamo ai precetti secondari (che poi tanto secondari non sono se fra di essi S. Tommaso elenca il divieto del furto). Essi possono essere cancellati nel cuore dell’uomo da vizi che assumono anche una dimensione sociale51. È vero quello che dice Seifert che la pratica assidua del vizio può ottundere il senso morale. Che diremo però di un bambino che viene cresciuto all’interno di una atmosfera permeata da alcuni vizi che gli vengono presentati come virtù? Fidandosi delle guide che la natura gli dà per entrare nella maturità umana questo giovane assimila alcuni vizi come virtù e la sua capacità di giudizio morale viene menomata. Diremo che questa persona è direttamente e pienamente responsabile per gli atti malvagi che compie? Qui entriamo nella seconda parte del lato soggettivo dell’azione, non trattiamo più (solo) della piena avvertenza ma (anche) del deliberato consenso.

Karol Wojtyla: la emozionalizzazione della coscienza
Qui incontriamo l’insegnamento del filosofo Karol Wojtyla ed anche quello di S. Giovanni Paolo II.
Wojtyla ha dedicato molte analisi penetranti al fenomeno della coscienza. Coscienza in polacco si dice in due modi: swiadomosc e sumienie. Sumienie indica piuttosto la coscienza morale. Swiadomosc indica piuttosto il fenomeno dell’essere coscienti. È soprattutto su questo aspetto che si concentra l’attenzione di Wojtyla. La coscienza non conosce e non costituisce l’oggetto della propria conoscenza, come vorrebbe la filosofia idealista. La facoltà conoscitiva è qualcosa di diverso dalla coscienza. La coscienza ha tuttavia una funzione importantissima: rispecchia ciò che abbiamo conosciuto e lo interiorizza, fa in modo che esso venga a dare forma al nostro mondo interiore52. L’intelletto conosce che un qualcosa è bene, la coscienza lo riconosce come un bene per me, come il mio bene. C’è in questo una analogia con la distinzione del Beato John Henry Newman fra assenso meramente nozionale ed assenso reale53. L’assenso nozionale è dato ad una proposizione, l’assenso reale non è un mero fatto intellettuale, non è semplicemente la conclusione di un sillogismo. Esso è un impegno di tutta la persona. L’intelletto conosce uno stato di fatto e propone alla volontà la conclusione operativa che deriva da questo stato di fatto. Fra la proposta dell’intelligenza e l’assenso della volontà sta però l’atto della coscienza che riconosce come propria la verità che l’intelligenza propone54. Questo atto può però essere influenzato dalla sfera emozionale. Le emozioni di cui l’uomo è portatore possono facilitare o ostacolare l’atto della volontà ed anche quello dell’intelligenza. In realtà noi non agiamo sotto la spinta semplicemente della intelligenza che conosce il bene. Noi agiamo sempre anche sotto la spinta della nostra struttura emozionale. Se vediamo un bambino che affoga non ci gettiamo in acqua dopo una analisi intellettuale di quale sia il nostro dovere nella situazione data. Lo facciamo per un riconoscimento immediato, intuitivo, del valore in gioco. Questo non vuol dire che l’intelletto non diriga l’azione. Piuttosto l’intelletto dirige attraverso le emozioni, guidandole e costruendo una struttura emozionale che risponde al bene. La costruzione della struttura emozionale corrisponde alla formazione delle virtù. In questo modo l’energia delle emozioni è messa al servizio dell’intelletto e sostiene il compimento dell’azione virtuosa. Può capitare, tuttavia, che questo meccanismo non funzioni, o, peggio, funzioni all’incontrario. Può cioè capitare che emozioni disordinate cerchino di impadronirsi della coscienza e le rendano difficile riconoscere il bene oggettivo o, almeno, il riconoscerlo come il suo bene55. La analisi di Wojtyla ci aiuta a vedere come la piena avvertenza ed il deliberato consenso si influenzino vicendevolmente nell’atto umano. Se non siamo liberi di riconoscere il bene cercheremo di convincerci che esso non è bene. Questa situazione di contrasto può capitare anche in una persona la cui struttura emozionale è relativamente sana o virtuosa. Si pensi al caso di un giudice che deve, per ragioni di stretta giustizia, condannare una persona che per giuste ragioni gli è cara. Nel diritto processuale il giudice ha il dovere di astenersi dal giudizio in tutti i casi in cui potrebbe essere coinvolto emotivamente o in cui sussiste un conflitto di interessi. Nella vita morale questa scappatoia non sempre è disponibile. Fare la cosa giusta quando tutta la struttura emozionale ci spinge nella direzione opposta non è facile. Può essere necessario un livello eroico di virtù. Può capitare che la coscienza sia emozionalizzata in modo tale da non riuscire a vedere quale sia la cosa giusta da fare o da vedere come giusto ciò che non lo è. In questi casi, che sono tutt’altro che rari nella vita, abbiamo bisogno della compagnia di amici veri che ci aiutino a oggettivare il nostro tumulto emozionale per capire dove è la verità e per aiutarci a riconoscere che la verità oggettiva è anche la verità della nostra vita56.
Queste situazioni di conflitto possono verificarsi e, anzi, si verificano nella vita di ogni uomo. Non è in gioco solo il fatto che talvolta l’intelligenza non comprende. È in gioco anche il fatto che talvolta il cuore impedisce all’intelligenza di funzionare in modo corretto. Può capitare di innamorarsi senza propria colpa della persona sbagliata. L’innamoramento non è un atto della persona, è un qualcosa che accade nell’uomo e suscita una tempesta emozionale che rischia di sopraffare l’intelletto e la volontà57. Proprio per questo, ci spiega Wojtyla nel luogo citato, l’innamoramento è una cosa diversa dall’amore, che è un giudizio dell’intelletto ed un impegno della volontà. Può capitare di subire una ingiustizia patente che genera un sentimento violento di rivalsa e di vendetta e anche in questo caso le emozioni cercano di impadronirsi del controllo della persona, di deformare il giudizio dell’intelletto e di forzare la decisione della volontà. Talvolta si dice che “chi non è dentro la situazione non può capire”. In questo c’è del vero e questa è la verità dell’etica della situazione. È però vero anche il contrario. Talvolta chi non è nella situazione proprio per il fatto di non essere coinvolto emotivamente può vedere con più oggettività la situazione stessa e quindi aiutare a capire con verità, ad oggettivare la situazione stessa. Certo, occorre in questi casi intervenire con pazienza e discrezione, nel modo e nel tempo opportuno. Qui si comprende il senso ed il ruolo dell’accompagnamento spirituale su cui tanto insiste Papa Francesco. L’amico deve entrare nella situazione per comprenderla, in un certo senso, dall’interno senza però lasciarsi coinvolgere in modo tale da perdere la capacità di leggerla in modo oggettivo. È il ruolo delle sorelle e delle amiche che aiutano una ragazza a capire che l’uomo di cui è innamorata non è l’uomo giusto per lei. È il ruolo degli amici veri che ci trattengono dal reagire in modo violento e sbagliato alle offese subite.
Il vero problema non è tanto il convincimento teoretico del valore della norma in se quanto il riconoscimento del suo valore per me, nella situazione concreta nella quale io mi trovo. Se vi fosse un errore meramente teorico la persona sarebbe esente da colpa. La diminuzione di colpa, la circostanza attenuante, riflette invece la tensione irrisolta nella quale il soggetto non riesce a vedere non la verità in astratto ma la verità in concreto della situazione nella quale si trova.
È possibile, come dice Seifert, che questo obnubilamento della coscienza sia il risultato di una colpa precedente e di un volontario indurimento della coscienza, come quando ci si ubriaca o ci si droga per poter più facilmente compiere un’azione che in condizioni normali ripugnerebbe alla coscienza morale. È però possibile che questa situazione insorga senza colpa. Si pensi alla situazione emotiva del giudice che deve condannare una persona cara o del coniuge che scopre di essere stato tradito dalla persona amata. Qui lo sconvolgimento emotivo che obnubila il giudizio ed emozionalizza la coscienza insorge senza che possa essere causato da una colpa precedente.
Esiste ancora una terza e più grave possibilità. La coscienza morale si forma attraverso un processo educativo, è trasmessa attraverso la parola e l’esempio dei genitori ed è poi rafforzata attraverso la letteratura, la musica, le arti figurative, la religione ed in generale la cultura della comunità in cui il fanciullo viene educato. È dunque possibile che la struttura emozionale e la coscienza della persona vengano formate fin dall’inizio in modo tale da alterare la giusta gerarchia dei valori, da renderle ottuse a certi valori ed esageratamente attaccata ad altri. Pensate ad un fanciullo educato in una cultura guerriera per la quale l’uccisione del nemico, il saccheggio dei suoi beni, la riduzione e in schiavitù delle sue donne e dei suoi figli sono atti meritori e gloriosi58. Qui, di nuovo, la coscienza può trovarsi nell’errore senza una colpa propria e diretta.
Il contributo del filosofo Karol Wojtyla ci aiuta a vedere meglio come la coscienza non crei il valore oggettivo dell’azione e come però essa entri a determinare la responsabilità della persona nell’azione. La persona può essere nell’errore senza colpa. In questo caso ha bisogno non di essere condannata ma di essere illuminata. La filosofia di Wojtyla ci aiuta qui a comprendere meglio anche il magistero di S. Giovanni Paolo II ed il suo scontro con l’etica della situazione. S. Giovanni Paolo II non oppone alla etica della situazione semplicemente una etica oggettiva. Egli supera l’etica della situazione ricomprendendo le sue ragioni all’interno di una sintesi più alta in cui trova il suo giusto posto sia l’oggettività che la soggettività59. L’ideale della etica di Wojtyla non è un uomo che spegne in se la vita emozionale in modo da poter obbedire alla verità oggettiva. La proposta educativa di Wojtyla è piuttosto quella di un uomo che educa le proprie passioni conducendole verso l’affermazione della verità oggettiva in modo che la verità possa essere affermata con tutta la ricchezza e la potenza delle passioni umane ordinate al bene. Diremo che in questo modo Wojtyla si allontana da S. Tommaso? Per nulla affatto. Egli riprende ed amplia il tema tomista (ma anche aristotelico) della educazione alla virtù60 . Può farlo perché in Tommaso la legge naturale non è solo un preceptum rationis practicae ma anche, in un certo senso, un habitus61.

S. Giovanni Paolo II ed il “peccato sociale”
Ci concentriamo adesso su di un punto, sul quale nel magistero di S. Giovanni Paolo II si può vedere un contributo della personale riflessione filosofica di Karol Wojtyla. Si tratta della questione, già ricordata, del peccato sociale.
La prima formulazione del concetto di peccato sociale all’interno di alcuni settori della teologia della liberazione corre parallela alla etica della situazione. Coloro che sono prigionieri di una struttura sociale ingiusta – dicono queste formulazioni – non possono concedersi il lusso di una vita morale individuale. Un solo imperativo riassume per essi la totalità della vita morale: la lotta di liberazione contro la situazione esistente di ingiustizia sociale. L’etica viene così riassorbita interamente dalla politica.
Molti in quegli anni facevano pressione perché il Papa condannasse la categoria “peccato sociale” o anche la categoria “strutture di peccato” ricordando semplicemente che il peccato è sempre un atto individuale. S .Giovanni Paolo II scelse invece di riformulare le categorie di “peccato sociale” e di “strutture di peccato”. Lo fece attingendo alla propria esperienza storica in Polonia ed alla sua propria riflessione filosofica. La esperienza del comunismo gli insegnava che una rivoluzione senza etica e senza Dio non libera l’uomo ma lo rende più drammaticamente e sanguinosamente schiavo. Anche in Polonia si pose più volte la questione della lotta armata. Wojtyla pensava che bisognasse vincere il male con il bene. Lui pensava che ci fosse bisogno di una rivoluzione etica che fu poi, in un certo senso, Solidarność.
D’altro canto è vero che esistono situazioni sociali che incorporano in se stesse una tentazione quasi irresistibile al male sia perché i privilegiati tendono a giudicare normale e senza peccato una situazione di ingiustizia sociale che genera contemporaneamente il loro benessere e la miseria di molti sia perché gli oppressi sono tentati di pensare che qualunque strumento sia giustificato per cambiare e capovolgere quella situazione62. La Chiesa deve accompagnare la coscienza aiutandola a riconoscere la verità e riconoscendo anche i diversi livelli di responsabilità e quindi le attenuanti soggettive che sono presenti nella situazione. Qui più che mai è necessario essere fermi nel condannare le azioni malvagie e attenti e prudenti nel valutare le persone.
Queste categorie di peccato sociale e di struttura di peccato subiscono poi una torsione particolare quando vengono applicate alla società opulenta occidentale63. Qui il problema lancinante non è quello della lotta armata ma quello del libertinismo di massa, il nuovo dogma per cui i comportamenti sessuali non devono essere assoggettati a nessuna norma morale. Si dice: che titolo hanno i preti per investigare quello che due esseri umani fanno fra le lenzuola? Ognuno faccia quello che gli pare purché non faccia danni ad altri. Purtroppo la sfera sessuale è una sfera nella quale è assai facile fare danni ad altri ed anche a se stessi. Non esiste nessuna cultura che escluda la vita sessuale da un giudizio morale, salvo appunto la nostra. Come riabituare alla norma morale una generazione che spesso non la ha imparata dall’esempio dei propri genitori e che è spinta ad ignorarla e trasgredirla da tutto l’insieme della comunicazione sociale? Qui è comune non solo l’ignoranza della norma morale ma anche la presunzione di un’altra ed opposta norma morale. Esistono habitus e strutture emozionali costruite su di un modello sbagliato. Esistono anche strutture psichiche malate, nevrosi e psicosi che sono il risultato della esposizione del bambino a situazioni malsane in età precoce, esistono abitudini deviate che hanno acquisito nel tempo la consistenza e la resistenza di una seconda natura64.
È a questa realtà dolente che il Papa pensa quando parla della Chiesa come ospedale da campo. Certo, la legge naturale persiste nella ragion pratica di ciascuno e può sempre essere ravvivata. Essa è però resa inefficace dal fatto che nella forma di habitus che regola le strutture emozionali della persona essa è in molti punti stravolta ed irriconoscibile. Essa è, diciamo così, disattivata è convertita nel proprio contrario. Viene in mente, a questo punto, l’esempio evangelico della elemosina della vedova. Essa versa nel tesoro del Tempio solo una monetina mentre i ricchi ed i principi del popolo fanno ricche offerte. Gesù però commenta: quella vedova ha dato più di tutti gli altri perché gli altri hanno dato del loro superfluo, quella donna ha dato tutto quello che ha65. Allo stesso modo ha forse maggior valore morale uno sforzo, anche limitato, di osservare la legge di Dio fatto da chi si trova in una di queste situazioni di peccato che non l’osservanza piena della legge da parte di uno che ha avuto la fortuna di essere educato al bene in una buona famiglia, di avere avuto buoni esempi nella scuola e nella vita, di avere letto buoni libri e (forse più importante di tutto) di avere sposato una donna buona (o, per una moglie, un marito buono)66 .

Esistono persone che vivono in una condizione di peccato senza colpa soggettiva
Credo che a questo punto sia chiaro:
Che possono esistere situazioni di ignoranza senza colpa della legge di Dio per quanto riguarda le conseguenze dai primi principi e la applicazione al caso concreto. Che queste situazioni per lo più implicano la emozionalizzazione della coscienza.
Che simili situazioni possono cristallizzarsi in strutture di peccato che danno vita alla generalizzazione di comportamenti immorali socialmente accettati.
Che quindi è giusto presumere che esistano alcune persone che si trovino in una condizione di peccato senza colpa, che è esattamente ciò che Seifert nega67. Forse Seifert non intende adeguatamente la posizione del S. Padre perché vede il problema soprattutto dal punto di vista dell’intelletto e vede il diritto naturale soprattutto come norma della ragion pratica. Per capire adeguatamente l’insegnamento di Papa Francesco bisogna invece considerare che il diritto naturale diviene operativo in quanto habitus dell’intelletto e appunto questo habitus può essere difettivo.
Abbiamo visto, inoltre, come siano profondi i vincoli che legano questa posizione all’insegnamento di S. Tommaso, alla filosofia di Karol Wojtyla ed al magistero di S. Giovanni Paolo II.

Il Papa però non vuole dare la comunione a tutti coloro che si trovano in una situazione di peccato senza (piena) responsabilità soggettiva.
Ci domandiamo però ancora: il Papa propone di dare la comunione a tutti coloro che si trovino in condizioni di peccato senza colpa soggettiva? Non sembra essere questa la intenzione del S. Padre. Proprio perché non si sogna di aderire ad una etica della situazione al S. Padre non viene affatto in mente che la buona coscienza soggettiva sia ragione sufficiente per ammettere ai sacramenti. La buona coscienza soggettiva è condizione necessaria ma non sufficiente. Certo: chi si avvicina ai sacramenti senza la buona coscienza soggettiva commette un sacrilegio e mangia e beve la propria condanna. Ad evitare quindi il pericolo del sacrilegio, che molto preoccupa Seifert, potrebbe bastare l’accertamento della buona coscienza soggettiva. Tuttavia di fatto questo al Papa non basta. Vuole molto di più. Vuole che sia iniziato un cammino di conversione. Vuole cioè che la buona coscienza soggettiva cominci ad essere inquieta, che la persona riconosca di avere peccato e riconosca (inizi a riconoscere) la legge che ha trasgredito68. In altre parole il Papa vuole che si sia riattivata la tensione fra la legge naturale come è contenuta nella ragione pratica e la legge naturale come habitus dell’intelletto e della volontà. Il peccatore riconosce di avere sbagliato ma non sa come uscire dalla situazione di peccato in cui si trova e che, in parte, ha creato con le proprie mani. Ha iniziato un percorso di conversione e di riparazione ma non lo ha ancora portato a compimento. Possiamo immaginare che sia nella situazione descritta nella Lettera di Giovanni Paolo II al Card. Baum. Il penitente vuole tornare alla osservanza della legge che non riesce però a praticare. Desidera continuare sul cammino della conversione e della penitenza ma non ne vede la fine, non si sente capace, teme che sia tutto inutile … È in questa situazione (o in situazioni simili a questa) che il Papa prospetta la possibilità dei sacramenti come aiuto nel cammino di una umanità ferita da parte di una Chiesa che è ospedale da campo di questa umanità69 .
Alla obiezione teorica alla quale abbiamo risposto Seifert ne aggiunge una più pratica. Come si fa a distinguere fra peccatori, per così dire, in stato di grazia (nei quali la considerazione delle condizioni soggettive induce a derubricare la colpa a peccato veniale) e peccatori per i quali le circostanze attenuanti non valgono? Evidentemente non è semplice e bisogna fare grande attenzione al modo in cui vengono preparati i futuri sacerdoti e vengono poi sostenuti nel loro ministero i confessori. Tuttavia: non si accorge Seifert che il problema già esiste per tutti i peccati con l’unica eccezione di quelli per i quali è esclusa la possibilità della confessione? Ogni giorno centinaia di migliaia di sacerdoti nel mondo devono cercare di capire se dare o non dare l’assoluzione a milioni di penitenti sulla base di una valutazione delle circostanze soggettive del loro peccato. Immagino che applicheranno al caso dei divorziati risposati gli stessi criteri che già applicano a tutti gli altri peccatori che si presentano al confessionale. Forse sarebbe bene che in questi casi la assoluzione fosse riservata all’ordinario del luogo che potrebbe a sua volta indicare sacerdoti più anziani, esperti e dotati di più elevata capacità di discernimento
… Si tratta di problemi di disciplina ecclesiastica che si affronteranno sulla base della esperienza ma che certo non legittimano le accuse accorate al Papa che a volte si sono sentite. Non dico che si tratti di una cosa facile: la Chiesa è chiamata a riscoprire il senso del sacramento della penitenza e Amoris Laetitia rende più urgente un compito che era comunque indilazionabile70.
Seifert espone poi la viva preoccupazione per il sacrilegio che molti potrebbero commettere accostandosi alla comunione pur essendo in condizione di peccato mortale71. La sua preoccupazione sarebbe certo molto giustificata se Amoris Laetitia aprisse le porte in modo indiscriminato a tutti i divorziati risposati, ma così non è, e lui stesso lo riconosce. Se si ammettono i divorziati risposati alla confessione e si vaglia in tale sede in modo giusto il loro livello di responsabilità soggettiva non pare che vi siano eccessive ragioni di preoccupazione.
Seifert si chiede poi se non sarebbe preferibile, per evitare lo scandalo di molti, raccomandare ai divorziati risposati in grazia di Dio la comunione spirituale72. Sembra che vi siano almeno due motivi. Uno è che il penitente ha bisogno dell’assoluzione. Se ha distrutto il primo è vero matrimonio contratto davanti a Dio ha commesso un peccato terribile che solo Dio può perdonare. È inoltre probabile che commetta nella vita altri peccati mortali per i quali ha bisogno dell’assoluzione. Le circostanze attenuanti che noi abbiamo considerato e che rendono meno grave il peccato sono solo quelle relative all’obbligo di uscire dalla situazione di peccato in cui sono andato a cacciarsi e dalla quale adesso non sanno come districarsi. Non valgono certo per tutti gli altri peccati che i divorziati risposati possono commettere nella vita. Non è un rischio grave per la loro salvezza eterna lasciarli privi dei sacramenti?
E poi, non è eccessiva e forse male orientata la preoccupazione dello scandalo? Di scandalo si può parlare in due sensi. C’è lo scandalo dei semplici che possono essere indotti a credere che il matrimonio non sia indissolubile e possono essere indotti a commettere dei peccati73. A questo scandalo bisogna fare la massima attenzione. C’è poi lo scandalo dei sapienti, che si considerano detentori e custodi privilegiati della legge di Dio e si scandalizzano della sua misericordia. È lo scandalo del fratello maggiore del figliuol prodigo74; è lo scandalo dei farisei perché Gesù perdona i peccati75 oppure mangia con i pubblicani ed i peccatori76; è lo scandalo di quelli che non vogliono che i discepoli spigolino il grano77 ed il Signore guarisca i malati78 il giorno di Sabato; è lo scandalo di Caifa e dei giudici del Sinedrio davanti a Gesù79. È infine lo scandalo dei giudaizzanti che vogliono imporre ai cristiani le stesse prescrizioni rituali degli ebrei ed è contro questo scandalo che S. Paolo insorge nel primo concilio di Gerusalemme80. S. Paolo non tratta questo scandalo con la stessa delicatezza con cui Gesù tratta lo scandalo dei bambini. Nessuno ha il diritto di imporre obblighi più pesanti di quelli del Vangelo o di estendere l’ambito del dogma sacralizzando disposizioni disciplinari che fanno parte della legge umana che necessariamente accompagna la legge divina ma che, a differenza della legge divina, può essere cambiata dalla legittima autorità. In questo ambito sembra che appartenga alla legge divina il precetto per cui non deve comunicarsi chi è in peccato mortale. Le precauzioni che la Chiesa prende per cercare di impedire che questo avvenga (e di queste precauzioni faceva parte il divieto di valutare in confessione le eventuali circostanze attenuanti dei divorziati risposati) sono legge umana e come tale possono cambiare al variare delle circostanze nella storia81.
La quarta ipotesi che Seifert considera è che la Amoris Laetitia riammetta ai sacramenti solo quei divorziati risposati che sono convinti in coscienza della nullità del primo matrimonio82. Essi dovrebbero in linea di principio ricorrere al tribunale ecclesiastico per ottenere la dichiarazione di nullità del primo matrimonio. È però possibile che non abbiano accesso ad un tribunale ecclesiastico per mancanza di mezzi materiali o per deficienze della organizzazione ecclesiastica oppure che essi non siano in grado di offrire prove convincenti della reale situazione di fatto perché nel tempo esse sono andate smarrite o a causa di false testimonianze cui invece il tribunale ecclesiastico ha creduto oppure può anche capitare che il tribunale ecclesiastico non sia in grado di rendere giustizia entro tempi ragionevoli. Seifert ignora una quarta possibilità: quella di coppie che hanno contratto matrimonio in una fase della loro vita in cui si erano allontanate dalla fede e poi desiderano tornare alla pienezza della vita cristiana. In una fase storica in cui tanti pencolano fra la fede e l’incredulità questo è forse il caso più frequente.
Seifert dopo qualche esitazione decide che anche in questi casi non è possibile concedere l’accesso ai sacramenti. Seifert offre diverse ragioni:
1. Il Concilio di Trento ha detto che se qualcuno afferma che la materia matrimoniale non appartiene alla giurisdizione ecclesiastica sia anatema e questo è stato poi confermato da diversi documenti magisteriali.
2. Il matrimonio non è una questione meramente privata ma ha bisogno di un riconoscimento pubblico e questo vale ancora di più nel caso di un matrimonio fra battezzati che è un sacramento.
3. Lasciare la decisione in questa materia alla coscienza individuale può portare a molte ingiustizie. In modo particolare possono essere lesi i diritti del coniuge e dei figli del primo matrimonio.
4. Il confessore di uno dei coniugi potrebbe giudicare il primo matrimonio valido ed il confessore del secondo coniuge potrebbe invece giudicarlo invalido. Il risultato sarebbe un caos.
Al primo punto rispondo che qui non si tratta di sottrarre la disciplina del matrimonio alla giurisdizione ecclesiastica. Contrarre un secondo matrimonio civile rimane un peccato. Il problema è semplicemente se questo peccato possa essere perdonato. Non c’è dubbio che non si debba contrarre un secondo matrimonio senza avere ottenuto lo scioglimento del primo, anche nel caso in cui uno fosse in coscienza convinto della nullità del primo matrimonio. Il problema è cosa si debba fare se qualcuno questo peccato lo ha commesso e poi vuole riparare. Vale la convinzione in coscienza della nullità del primo matrimonio come circostanza attenuante che permette l’accesso ai sacramenti83?
Non si dimentichi che la norma di Trento non costituisce una definizione dogmatica, almeno non per quanto riguarda la forma del matrimonio. Essa può avere un senso dogmatico se la si prende come rivendicazione della competenza della Chiesa in materia matrimoniale contro la pretesa degli Stati di avocare a se la competenza esclusiva in tale materia. Non lo ha se si pensa che essa escluda la possibilità di regolare la forma canonica del matrimonio in modo diverso da quanto in Trento stabilito. Si dovrebbe altrimenti accusare di eresia tutti i Papi ed i Concili precedenti Trento che hanno regolato in modo diverso la forma canonica del matrimonio. Ancora più inaccettabile sarebbe la pretesa di estendere la sfera di applicazione di questo canone al sacramento della penitenza ed alle regole da adottare nel caso di cui ci stiamo occupando. La colpa qui anatemizzata è quella di negare la giurisdizione ecclesiastica in materia matrimoniale ma questo non cambia nulla al fatto che il matrimonio possa essere contratto in modo illecito e pure essere valido. Gli sposi potrebbero subire una penitenza canonica ma il loro matrimonio sarebbe valido, proprio come è valida una ordinazione sacerdotale compiuta senza il consenso della
S. Sede: è illecita ma valida. Il nuovo sacerdote si rende responsabile di una colpa grave ma rimane validamente ordinato. Si tratta evidentemente di materia di disciplina ecclesiastica che Trento per giuste ragioni ha regolato in un modo e che la legittima autorità ecclesiastica può, per giuste ragioni, regolare in un altro modo. In ogni caso il Papa qui non sta proponendo di riconoscere come matrimonio valido la unione di due persone convinte in coscienza della invalidità del loro primo matrimonio, nemmeno nel caso in cui la loro coscienza soggettiva corrisponda evidentemente alla realtà oggettiva ma non sia ancora stata convalidata dal giudizio del tribunale ecclesiastico. Se mai invita a valutare se questa possa valere come circostanza attenuante nella valutazione concreta del peccato in cui vivono.
Al secondo punto diciamo che non si ha alcun riconoscimento pubblico del secondo matrimonio ma semplicemente il riconoscimento della buona coscienza della persona. Il Papa non propone in questi casi di riconoscere una specie di matrimonio di coscienza. Propone solo di vedere se, almeno in alcuni casi, le persone che vivono in quelle situazioni possano essere riammesse ai sacramenti in forza della loro buona coscienza soggettiva.
Al terzo punto rispondiamo che i diritti di altri sono (forse) già stati lesi e che la riammissione ai sacramenti potrebbe essere condizionata ad una azione riparatrice verso chi è stato danneggiato, se ve ne fosse la ragione e la possibilità. I diritti dei terzi sono lesi dal matrimonio civile, non dalla eventuale riammissione ai sacramenti, ove ve ne fosse giusta ragione.
Al quarto punto diciamo che il confessore non giudica della validità del vincolo ma solo della coscienza soggettiva del penitente.
Altra questione nella quale non vogliamo entrare è se unioni contratte con la retta coscienza soggettiva della nullità del primo matrimonio, nel caso in cui lo stato di fatto oggettivo corrisponda alla coscienza soggettiva, siano matrimoni validi davanti a Dio, ancorché canonicamente irregolari. I ministri del matrimonio sono, non dimentichiamolo, gli sposi e l’essenza del matrimonio è lo scambio del loro consenso. Amoris Laetitia non affronta però questo problema (che è quello invece sul quale si appuntano le riflessioni di Seifert) e non lo faremo nemmeno noi.

II,II. Le affermazioni che Seifert chiede al Papa di ritrattare o correggere

Abbiamo così esaurito le obiezioni di Seifert ad Amoris Laetitia. Seifert aggiunge poi la domanda al Papa di correggere una serie di affermazioni a suo giudizio ambigue o oggettivamente eretiche. Mettiamo da parte il problema se non sia alquanto azzardato per un filosofo pur di grande valore erigersi a giudice della ortodossia di un Papa. Torneremo su questo punto nelle nostre conclusioni. Adesso ci interessa vedere quali siano queste affermazioni e se davvero ad un esame attento sembrino meritevoli di correzione.

È l’adulterio, almeno in alcune situazioni, cosa buona o addirittura obbligatoria?
La prima affermazione che il Papa avrebbe fatto è che dovrebbe correggere sarebbe che l’adulterio sia, in alcune situazioni, non più vietato ma anzi buono ed addirittura obbligatorio. Vediamo cosa dice esattamente il S. Padre nel testo che Seifert cita: “Ma questa coscienza può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo. In ogni caso, ricordiamo che questo discernimento è dinamico e deve restare sempre aperto a nuove tappe di crescita e a nuove decisioni che permettano di realizzare l’ideale in modo più pieno84”.
Il Papa dice che in una situazione oggettiva di peccato Dio ci può prendere per mano e iniziare a tirarci fuori da quella situazione passando per delle tappe la prima delle quali può non essere ancora il pieno adempimento della norma morale ma è comunque un miglioramento rispetto alla situazione precedente. Immaginiamo un uomo che, dopo il fallimento del primo matrimonio, cade in depressione, si ubriaca, smette di lavorare, diventa violento, ha rapporti sessuali occasionali…
Questo uomo si innamora di una donna buona e la sposa, torna ad avere fiducia nella vita, lavora, esce dall’alcol e dalla droga, diventa un buon padre per i suoi figli… La sua situazione sarà certamente migliore di quella di prima, anche da un punto di vista morale. Se, per esempio, respinge la tentazione di tradire la nuova compagna può giustamente ritenere di fare la volontà di Dio, non pienamente ma come una tappa in un cammino che deve continuare. Se a Seifert non piace l’espressione “migliore” diremo “meno cattiva” (S.Tommaso forse direbbe migliore “secundum quid”) . Se questo uomo ha la tentazione di mettere in pericolo il nido che ha costruito con avventure occasionali forse è giusto scoraggiarlo. Forse un giorno lui e la sua compagna impareranno ad amarsi senza rapporti sessuali ed a compiere pienamente la legge.
Seifert non paragona una situazione di vita con un’altra situazione di vita (come fa invece il Papa) ma il singolo atto sessuale con il singolo atto sessuale. Tuttavia anche se accettiamo questa ottica più ristretta è più astratta (per comprendere la responsabilità dell’agente nell’atto, cioè il livello della colpa, dobbiamo sempre collocare l’atto nel suo contesto) mi sembra che la sua posizione rimanga errata. Egli dice che un semplice atto di tradimento all’interno della nuova relazione sarebbe meno grave di un adulterio all’interno di un secondo matrimonio. Questo è certamente vero. Il tradimento di una relazione non consacrata dal vincolo del matrimonio è certo peccato meno grave del tradimento di una relazione consacrata dal vincolo del matrimonio. Sembra però che nel caso in esame i due disvalori si sommino. L’atto sessuale in esame è, sempre e necessariamente, un tradimento della moglie con la quale si è uniti sacramentalmente e, contemporaneamente, anche della compagna con la quale l’adultero ha costruito un nuovo nido.
Oppure forse Seifert pensa che l’atto di sfida alla norma ecclesiastica che costituisce il semplice fatto di contrarre un nuovo matrimonio si trasferisce su ogni singolo atto sessuale all’interno del nuovo matrimonio e quindi ogni atto sessuale all’interno del nuovo matrimonio costituisca una specie di adulterio aggravato…Questo però non sembra essere corretto. Non si possono mescolare fra loro due cose diverse: una cosa è l’adulterio che si ripete in ogni singolo atto sessuale extra matrimoniale ed un’altra cosa è l’atto del contrarre un matrimonio civile. Ogni colpa è specificata dal suo oggetto o dal bene che viene leso. Nel primo caso il bene leso è la santità del matrimonio, nel secondo caso è il rispetto dovuto alla competenza ecclesiastica in materia matrimoniale. Nel primo caso la lesione si ripete con ogni singolo atto. Nel secondo si consuma nell’atto originario.
Seifert colloca inoltre l’atto sempre in una prospettiva a/temporale. Il Papa fa (e ci chiede di fare) esattamente il contrario: come si colloca l’atto all’interno della vita della persona? In che direzione la fa muovere85? Anche da un punto di vista meramente statico è tuttavia innegabile che l’atto con il quale si tradisce contemporaneamente sia la prima moglie che la nuova compagna costituisce un disvalore morale maggiore dell’atto con il quale si tradisce solo la prima moglie.
Non sembra qui che nelle affermazioni del Papa vi sia nulla da correggere. Egli non dice affatto che l’adulterio sia un bene. Dice semplicemente che tradire contemporaneamente e la prima moglie e la nuova compagna è peggio che tradire solo la prima moglie. Difficile non essere d’accordo con lui. Ci dice anche che il cammino della conversione continua e (se il primo matrimonio è valido) finisce con la rinuncia ai rapporti sessuali86.

Divorziati risposati coscienti di essere adulteri e non pentiti possono essere in grazia di Dio?
Il secondo testo della Esortazione Apostolica che Seifert ritiene meritevole di ritrattazione o correzione è il seguente:
“Essi (i divorziati risposati) non solo non devono sentirsi scomunicati, ma possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa, sentendola come una madre che li accoglie sempre, si prende cura di loro con affetto e li incoraggia nel cammino della vita e del Vangelo. Questa integrazione è necessaria pure per la cura e l’educazione cristiana dei loro figli, che debbono essere considerati i più importanti87”
Seifert dice: “Se le parole citate di AL significano, come molti interpreti ritengono, che coppie divorziate risposate possono essere consapevoli del fatto di commettere adulterio e tuttavia possono vivere in stato di grazia, nonostante questo adulterio cosciente, questo sarebbe in contraddizione con la Sacra Scrittura e con la dottrina dogmatica della Chiesa88” .
Lasciamo perdere gli interpreti, che davvero in qualche caso non hanno aiutato e lasciamo perdere pure il fatto che Seifert dimentica di citare fra le possibili circostanze attenuanti l’assenza del “deliberato consenso” che tanto peso invece ha nelle considerazioni del Papa ed anche nella vita reale. Veniamo invece alla parole del Papa che non dice nulla di ciò che Seifert gli attribuisce. Invita i divorziati risposati a sentirsi membra vive della Chiesa (ma non aveva già Giovanni Paolo II detto qualcosa di simile?) che devono crescere sul cammino della vita e del Vangelo. È ovvio che di questo cammino fa parte il sacramento della penitenza, al,quale hanno accesso come tutti i fedeli e nel quale i loro peccati potranno essere valutati come quelli di tutti i fedeli e ricevere, se del caso, l’assoluzione e la corrispondente penitenza, come quelli di tutti i fedeli. Se sono pienamente coscienti di essere adulteri e decidono liberamente di perseverare in questo stato, se cioè non hanno nessuna delle circostanze attenuanti previste dal Catechismo della Chiesa Cattolica ovviamente non potranno accostarsi ai sacramenti89.
Anche qui non si vede cosa il S. Padre debba correggere e perché.

Ripudia Papa Francesco Veritatis Splendor e Familiaris Consortio?
La prossima richiesta di correzione di Seifert riguarda la questione cruciale della etica della situazione. Ripudia Papa Francesco Veritatis Splendor, Familiaris Consortio e tutto l’insegnamento di S. Giovanni Paolo II sul soggettivismo nell’etica?
Anche in questo caso vediamo prima di tutto i testi di Papa Francesco che, secondo Seifert, sarebbero meritevoli di correzione.”Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante. I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere «valori insiti nella norma morale»[339] o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa90.
Chi ha seguito attentamente quanto abbiamo già visto sul l’insegnamento di S. Tommaso e di Karol Wojtyla non avrà grandi difficoltà a capire di cosa il Papa sta parlando. Vi sono casi in cui il soggetto non conosce la norma. Vi sono poi casi in cui il soggetto conosce la norma ma non riesce ad interiorizzarla, cioè non riesce a capire come essa sia buona per lui, o non riesce a trovare un modo per uscire dalla situazione di peccato senza cacciarsi in una situazione di peccato ancora peggiore.
Seifert commenta:
“Papa Francesco sembra insegnare che questi comandamenti siano espressione di un ideale … che solo alcuni sono in grado di realizzare, di conseguenza i comandamenti di Dio sarebbero semplici “consigli evangelici” (come quelli del celibato e della povertà) per alcuni, che ricercano una perfezione più alta, e non comandamenti in senso stretto che vincolano tutti in modo universale. … il Papa non può insegnare eresie condannate dal Concilio di Trento91″.

A me sembra invece che l’esegeta in questo caso non abbia letto bene il testo. Cominciamo con il richiamare il titolo della sezione della Esortazione Apostolica della quale stiamo parlando: Le circostanze attenuanti nel discernimento pastorale. Nel medesimo n. 301, nella fase che precede immediatamente quelle citate da Seifert, il Papa si ripete: “La Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti…”. Non stiamo parlando della qualifica oggettiva dell’atto ma delle circostanze attenuanti che possono diminuire la colpa soggettiva e trasformare un peccato mortale in un peccato veniale. Di conseguenza non ha senso la preoccupazione che il comandamento che proibisce l’adulterio venga privato della sua forza vincolante e ridotto ad un semplice consiglio evangelico. Io non ho bisogno di circostanze attenuanti per essere in grazia di Dio pur non osservando i consigli evangelici. Ne ho bisogno se cerco di attenuare la mia colpa per non avere obbedito ai comandamenti. Ed è ovvio che se cerco circostanze attenuanti so che avrei dovuto fare di meglio ma non ne sono stato capace.
Seifert vorrebbe che, in questo contesto, il Papa ritrattasse anche un’altra proposizione, della quale peraltro, già abbiamo avuto occasione di occuparci:
I divorziati che vivono una nuova unione, per esempio, possono trovarsi in situazioni molto diverse, che non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale. Una cosa è una seconda unione consolidata nel tempo, con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe. La Chiesa riconosce situazioni in cui «l’uomo e la donna per seri motivi – quali per esempio l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione” (n. 304). Qui Seifert cita anche la nota 32992. In queste situazioni, molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, «non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli93».
Secondo Seifert “AL dice o almeno suggerisce che quando l’adultera non si può o non si deve separare dall’adultero (quando per esempio la separazione della coppia sposata civilmente potrebbe recare danno ai figli) e vive con lui in castità “come una sorella” (che è poi quello che la Chiesa Cattolica ha sempre preteso in simili situazioni) ma questo stile di vita potrebbe condurla a diventare “infedele al suo partner o potrebbe indurre il suo partner a diventarle infedele, sarebbe meglio, davanti ad un simile pericolo di infedeltà fra due adulteri, che la donna non viva con il suo secondo “marito” come “una sorella” ma abbia rapporti intimi con lui94″.
Di conseguenza il Papa insegnerebbe la dottrina eretica per cui per i divorziati risposati sarebbe meglio avere rapporti adulterini piuttosto che convivere come fratello e sorella.
Ma dice proprio questo il Papa? E poi lo dice o lo suggerisce? E se questa suggestione fosse il risultato di una interpretazione tirata per i capelli?
A me sembra che il Papa elenchi una serie di stati di fatto ai quali occorre fare attenzione prima di giudicare una situazione concreta. Se proprio si vuole trarre una conclusione operativa mi sembra che sia piuttosto la seguente: quando una donna che convive con il secondo marito si rende conto di dovere rinunciare ai rapporti sessuali è bene invitarla a controllare bene se le sue forze siano adeguate al passo che si propone di fare perché se ci provasse e non riuscisse e nel corso del tentativo sfasciasse il nido che ha creato per i propri figli il risultato sarebbe da tutti i punti di vista disastroso. Per i divorziati risposati convivere senza rapporti sessuali è bene, convivere con rapporti sessuali è male, convivere senza rapporti sessuali con il partner intrattenendo invece una relazione doppiamente adulterina con una terza persona è ancora peggio.
Seifert cita infine ancora una volta Amoris Laetitia: Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere «valori insiti nella norma morale» [339] o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa (n. 301). Credo che questa frase corrisponda esattamente alla situazione che abbiamo descritto: se una persona ha buone ragioni di ritenere che se prova adesso a fare un passo verso l’osservanza compiuta della norma non ci riuscirà forse converrà aspettare finché le sue forze siano cresciute, la sua fede sia cresciuta, le circostanze generali siano cambiate. Anche in questo caso non sembra che ci sia nulla da cambiare nelle parole del Papa95.

Nega il Papa che esista l’inferno?
Le ultime frasi del Papa che Seifert vorrebbe ritrattate o corrette sono le seguenti: “Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo! Non mi riferisco solo ai divorziati che vivono una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino96” e poi: “La strada della Chiesa, dal Concilio di Gerusalemme in poi, è sempre quella di Gesù: della misericordia e dell’integrazione […]. La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero […]. Perché la carità vera è sempre immeritata, incondizionata e gratuita97!».
Da queste affermazioni Seifert deduce che il Papa non crede nell’inferno e nella possibilità della dannazione eterna, ma è giustificata questa presunzione? Vediamo.
Sul primo punto il testo continua con le parole :
“Ovviamente, se qualcuno ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa, non può pretendere di fare catechesi o di predicare, e in questo senso c’è qualcosa che lo separa dalla comunità98. Ha bisogno di ascoltare nuovamente l’annuncio del Vangelo e l’invito alla conversione99”.
È chiaro che il Papa offre a tutti la misericordia di Dio e crede che questo sia il compito della Chiesa. È altrettanto chiaro che la misericordia, per essere efficace, deve essere accolta dalla persona attraverso la conversione. Non è una misericordia che cancella la responsabilità della persona ma una misericordia che sollecita la conversione.
Anche la seconda citazione non sembra affatto dimostrare la interpretazione di Seifert. La Chiesa non condanna eternamente nessuno. Il suo compito non è condannare ma offrire la misericordia di Dio “a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero”. Questa offerta è “immeritata, incondizionata, gratuita.” Il compito della Chiesa non è condannare. Il tempo della Chiesa è il tempo della misericordia. Verrà il tempo del Giudizio Finale in cui Dio giudicherà il mondo? Certo che verrà e questo certamente il Papa non lo nega. Quel giorno Dio giudicherà quelli che avranno rifiutato la sua misericordia e non le avranno risposto con la loro conversione. Sarà Dio stesso a condannare nel giorno del giudizio o piuttosto Dio prenderà atto del giudizio che ciascuno con le proprie opere avrà pronunciato su se stesso.
C’è una parola del Papa che neghi tutto questo? Non mi pare. E perché mai allora dovrebbero essere ritrattate?
Certo, a Seifert piacerebbe che il Papa nella Amoris Laetitia parlasse dell’inferno. Il Papa invece non ne parla. Ha il dovere di parlarne? Il Papa ha il dovere di insegnare tutta la dottrina e quindi anche la verità relativa all’inferno ma ha anche il diritto di decidere lui quando e come parlarne ed evidentemente ha deciso di non parlarne nella Amoris Laetitia. Se è per questo il Papa in questa Esortazione Apostolica non parla nemmeno di molte altre dottrine della Chiesa. Nessun Papa può abbracciare in un solo documento tutta la dottrina cristiana ed un po’ curioso che qualcuno lo pretenda. C’è qui un delicato e nobile problema di retorica. In che modo si comunica l’annuncio di Gesù Cristo ad un popolo largamente scristianizzato? Da dove si comincia? Cosa viene prima e cosa viene dopo? Cosa è più essenziale e cosa lo è meno? Qual è l’ordine giusto della esposizione che permette di comprendere esattamente l’annuncio? Se si comincia dalla parte sbagliata c’è il rischio che l’annuncio venga rifiutato prima di essere compreso o anche che venga compreso in un modo parziale e, infine, sbagliato. Il Papa evidentemente pensa che l’annuncio della misericordia venga prima di quello dell’inferno. Del resto la struttura dell’annuncio cristiano comincia con il Natale, solo poi verrà la croce (che include in se il mysterium iniquitatis) e infine la resurrezione.

È giusto accusare il Papa di essere eretico?
Infine Seifert si giustifica per il fatto di avere richiamato alla ortodossia il Papa, pur essendo lui un semplice laico. Egli ricorda casi di Papi che hanno sbagliato ed anche di Papi eretici che sono stati corretti da laici.
Per la verità ci sono forse alcuni pochissimi Papi in tutta la storia della Chiesa dei quali si può sospettare che siano stati eretici. È però certo che tutti gli eretici hanno preteso che i Papi del loro tempo fossero eretici. Le probabilità sono tutte a favore dei Papi.
Seifert parla come se la dottrina della fede fosse affidata ad una corporazione di dotti che la custodiscono invariata nel tempo. Ma è proprio così? Ogni testo deve essere interpretato in un contesto. Come rileggere il testo della dottrina cristiana in un contesto che cambia?
Una risposta possibile è quella di tornare indietro nel tempo, farsi uomini del passato (ma quale passato poi? Quello del Concilio di Trento? O quello dei grandi Concili che hanno fissato la dottrina trinitaria? O quello della Palestina del tempo di Gesù?) per rileggere il testo nel contesto in cui originariamente è stato formulato. In questo modo si diventa incapaci di rendere viva la parola perché possa illuminare il presente. Una altra risposta possibile è invece rileggere la dottrina nel contesto del presente. Inevitabilmente quello che Hegel chiamava lo spirito del tempo prevale sulla dottrina che perde in tutto o in parte il suo significato originario. Anche questa risposta è insoddisfacente. Sono, queste, le due posizioni antitetiche dei tradizionalisti e dei progressisti.
La Chiesa Cattolica crede invece che Dio, per garantire che la dottrina sia sempre antica e sempre nuova, ha deciso di costruire Lui stesso il contesto nel quale la dottrina deve essere letta. Questo contesto è fornito dal sacramento della Chiesa. Attraverso i sacramenti ed in particolare attraverso il sacramento dell’ordine e della successione apostolica con Pietro alla testa del collegio degli apostoli, Dio crea il contesto della interpretazione della parola e della dottrina.
Per questo la funzione docente nella Chiesa è affidata ai vescovi e, in modo eminente, al Papa.
Essa dipende da una particolare assistenza dello Spirito Santo che essi hanno e noi professori no.
Per questo è sbagliato accostarsi ad un testo del magistero come se fosse una tesi di uno studente. Ad esso bisogna accostarsi con la disponibilità a farsi giudicare prima che a giudicare ed anche a mettere in crisi e riesaminare le proprie convinzioni. Con la disponibilità alla conversione. Con uno spirito di filiale fiducia che induce a cercare di capire prima di criticare, con la convinzione che dal Papa si può sempre imparare qualcosa di nuovo che ci sorprende e che il Papa ha a cuore l’integrità della dottrina cristiana più di quanto la abbiamo a cuore noi. Bisogna invece stare attenti ad evitare l’atteggiamento di quelli che sono convinti di sapere già tutto e leggono solo per trovare la conferma di ciò che loro già presumono di sapere o per censurare il Papa se credono che egli si discosti in qualche punto dalla dottrina infallibile di cui si sentono depositari. A questo proposito forse Papa Francesco dovrebbe davvero parlare un poco di più dell’inferno, per ricordare i pericoli cui si espongono i dotti che azzardano giudizi temerari sulla ortodossia del Papa e spargono i semi della eresia e dello sisma.
Ciò non vuol certo dire che i laici non abbiano diritto di parola o che i professori non abbiano una funzione importante anche se ausiliaria, però sempre “cum Petro et sub Petro”. I discepoli hanno certo il diritto di porre domande (lo facevano anche i discepoli di Gesù) e le domande possono indurre il Maestro a meglio formulare il suo insegnamento o anche a correggerlo. Inusuale è invece che il discepolo salga in cattedra e faccia le lezione al Maestro accusandolo di eresia.

Note

1 AEMAET. Wissenschaftliche Zeitschrift für Philosophie und Theologie Aemaet Bd. 5, Nr. 2 (2016) 2-84, http:// aemaet.de urn:nbn:de:0288-2015080660. L’articolo è apparso in diverse lingue. Prendo come punto di riferimento il testo tedesco perché questa è la lingua madre dell’autore
2 Amoris Laetitia 305.
3 Il tutto nel frammento, Jaca Book, Milano 1972. Ed. originale Das Ganze in Fragmen
4 n.1857/1861. Vedi anche Giovanni Paolo II, Reconciliatio et paenitentia, n.17.
5 cfr. Giovanni Paolo II: Discorso ai membri del “centre de liaison des équipes de recherche 3 novembre 1979.
6 Mt.19, 6.
7 Veritatis Splendor n. 52.
8 Sacra Congregazione per la dottrina della fede: Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, emanata il 24 novembre del 2002.
9 Riportiamo qui il passo decisivo di Reconciliatio et Poenitentia n. 17: “Cogliamo qui il nucleo dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, ribadito spesso e con vigore nel corso del recente Sinodo. Questo, infatti, non soltanto ha riaffermato quanto è stato proclamato dal Concilio Tridentino sull’esistenza e la natura dei peccati mortali e veniali, ma ha voluto ricordare che è peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso. E’ doveroso aggiungere – come è stato anche fatto nel Sinodo – che alcuni peccati, quanto alla loro materia, sono intrinsecamente gravi e mortali. Esistono, cioè, atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto. Questi atti, se compiuti con sufficiente consapevolezza e libertà, sono sempre colpa grave”. Sottolineiamo che alcuni peccati “sono intrinsecamente gravi e mortali”. Qui il Papa conferma la teoria dell'”intrinsice malum”. Ha però cura di precisare “quanto alla loro materia”. In questo modo precisa che anche nel caso dell’intrinsice malum valgono le circostanze attenuanti soggettive che influiscono sulla piena coscienza ed il deliberato consenso, cioè sul lato soggettivo dell’azione. È per questo che specifica che questi atti sono sempre colpa grave “se compiuti con sufficiente consapevolezza e libertà”. La teoria dell'”intrinsice malum” è perfettamente compatibile con il sistema delle attenuanti soggettive.
10 S. Tommaso Questiones Quodlibetales q. 17 art. 4.
11 K.Wojtyła Persona e Atto, Bompiani, Milano, 2001. Ed. Originale polacca 1969.
12 Rimandiamo su questo punto in modo particolare a K.Wojtyla L’uomo nel campo della responsabilità, Milano, Bompiani, 2002. È un abbozzo di un’opera che Wojtyla stava elaborando prima della sua elezione al pontificato.
13 Robert A. Gahl Jr. Healing through Repentance in First Things, 7.26.16, tr.it. In www.chiesa.espressonline.it.
14 Quaestiones Quodlibetales q.17, art.5.
15 Vedi Ippolito Tradizione apostolica, 15/22.
16 Joachim Jeremias Le baptême des enfants dans les premieres quatre siècles. Le Puy-Lyon 1967.
17 Mitis Iudex Dominus Jesus e Mitis et misericordia Jesus
18 Josef Ratzinger: A proposito di alcune obiezioni contro la dottrina della Chiesa in materia di ricezione della comunione eucaristica da parte dei divorziati risposati in Sacra Congregazione per la dottrina della fede: Sulla pastorale dei divorziati risposati, Città del Vaticano, Lev,1998.
19 Codex Juris Canonici can. 1143/1147
20 ibidem. can.1148.
21 Il principio della continuità creativa dice che il Magistero presente va letto alla luce di quello che lo ha preceduto. Per questo è pacifico che, se mai alcune espressioni possono avere più di un significato,va sicuramente privilegiato quello compatibile con il magistero precedente. Il principio dice però anche un’altra cosa, e cioè che anche il magistero precedente va letto alla luce di quello successivo, privilegiando le interpretazioni compatibili con il magistero successivo. Cfr. su questo punto Rodrigo Guerra Lopez Fedeltà Creativa. Dalla riflessione di Karol Wojtyla alla Esortazione Amoris Laetitia in L’Osservatore Romano, 22/7/2016. È inoltre assai importante distinguere fra di loro: il magistero infallibile, il magistero ordinario e le decisioni riguardanti la disciplina ecclesiastica. La differenza, da molti sottolineata, fra Amoris Laetitia e Familiaris Consortio, 84, riguarda una mera questione di disciplina ecclesiastica. È ovvio che anche le decisioni di disciplina ecclesiastica sono basate sulla Scrittura ma esse contengono sempre anche un elemento contingente storico. Al variare della circostanza storica anche la decisione deve cambiare. A volte proprio per essere fedeli allo Spirito bisogna cambiare la lettera.
22 S. th. I-II, q.91, art.6
23 associata alla figura di Maria Maddalena e quasi una sua ripresentazione nel tempo moderno, è per me il personaggio di Sofia in Delitto e Castigo di Dostojewski
24 Lc. 7,47.
25 K.Wojtyla Amore e Responsabilità, III La persona e la castità, Casale Monferrato 1980.
26 Mt 25, 14/40
27 Mt. 21. 28/32.
28 A. Mickiewicz Dziady, cz. II
29 Reconciliatio et Paenitentia, n.17.
30 Aristotele Politica 1254a8/1255b15
31 Seneca Epistoles Morales ad Lucilium, n. 70.
32 Cori dalla Rocca II
33 Fedone 115a/118a
34 Mt. 26/27; Mc. 14/15; Lc. 21/22; Gv. 18/19
35 Laura Cotta Ramosino, Il Supplizio della Croce in Sirio Italico. Pun.I 169/181 , 539/541, in Aevum, 2010 (84, 3).
36 Discorso di Giovanni Paolo II ad Auschwitz/Birkenau 7 giugno 1979.
37 Cfr. la lettera di S.Tommaso Moro alla figlia Margareth del 17/4/1534: “Dopo avere letto in silenzio e riflettuto sulla formula del giuramento, dichiarai ai Consiglieri che non era mio intendimento censurare né l’atto e chi lo aveva formulato, né il giuramento e chi lo aveva prestato; né condannare alcuno. La mia coscienza però mi vietava di giurare…”
38 ad altri forse è lecito, a te invece no. Terenzio Heauton timoroumonos atto 4, 749/804.
39 Familiaris Consortio n.34; Amoris Laetitia 295.
40 Die Freude der Liebe. Freude, Betrübnisse und Hoffnungen, p.13 e ss.
41 ibidem p.13
42 ibidem p.18 e ss
43 Ibidem p.22
44 La gioia dell’amore e lo sconcerto dei teologi , 20/7/2016
45 ibidem p.23
46 1859
47 S. th. I-II, q. 94 art, 4, 5 e 6.
48 ibidem art. 6.
49 S. th. I-II q. 94, art.1
50 cfr. p. Es. S. Tommaso In III De Anima lect. 7 & 690
51 S. th. I-II q. 94 art. 6 cit.
52 K.Wojtyla Persona ed Atto, cap. I paragrafo Coscienza e autoconoscenza.
53 Grammatica dell’Assenso Parte I cap. 4
54 Persona ed Atto, cit. Cap. I par. L’aspetto riflettente della coscienza e l’esperienza.
55 ibidem par. Il problema della emozionalizzazione della coscienza
56 per capire questa situazione esistenziale sono decisive le pagine del capitolo Coscienza e autoconoscenza in Persona e Atto cit.
57 cfr. Amore e Responsabilità parte II i capitoli 2. Analisi psicologica dell’amore e 3. Analisi etica dell’amore.
58 pensate per un momento all’etica di Achille o di Beowulf. Noi tuttavia non li disprezziamo e perfino li ammiriamo perché comprendiamo istintivamente il sistema di costrizioni e di limiti all’interno del quale si esercita la sua coscienza morale. Cfr. E. Pound: Sestina: Altaforte
59 cfr. A. Szostek: Natura, Rozum Wolność, Lublin 1989. Questo libro, scritto da un allievo di Karol Wojtyla e di Tadeusz Styczen, mostra chiaramente che il progetto di Giovanni Paolo II non era quello di opporsi alla svolta antropologica della teologia morale ma piuttosto quello di correggerla e riassorbirla in una visione superiore che tiene conto in modo equilibrato e del lato soggettivo e del lato oggettivo dell’azione umana. Alcuni, che si erigono a interpreti privilegiati di Wojtyla, abilitati a giudicare della “ortodossia” wojtyliana, sembrano non avere capito lo snodo fondamentale del suo pensiero.
60 Catechismo della Chiesa Cattolica n.1804.
61 S. th. I-II q. 55.
62 Sollicitudo rei socialis n. 36/40
63 Reconciliatio et Paenitentia, n.18.
64 Vedi per es. Reconciliatio et Paenitentia n.17: “Senza dubbio si possono dare situazioni molto complesse e oscure sotto l’aspetto psicologico, che influiscono sulla imputabilità soggettiva del peccatore”
65 Lc. 21, 1/4.
66 Amoris Laetitia n. 305
67 ma lo nega davvero? A p. 31 del suo saggio più volte citato propone di consigliare ai divorziati risposati “che vivono soggettivamente senza peccato ed in stato di grazia” la comunione spirituale. Forse non si rende conto che con questa ammissione della esistenza di divorziati risposati che possono essere in stato di grazia la questione teologica è chiusa. Rimane solo una questione disciplinare sulla quale certo ciascuno può avere le proprie opinioni ma l’autorità legittima ha il diritto di decidere. È esattamente qui che passa il confine fra teologia morale e disciplina ecclesiastica.
68 Altra cosa invece è una nuova unione che viene da un recente divorzio, con tutte le conseguenze di sofferenza e di confusione che colpiscono i figli e famiglie intere, o la situazione di qualcuno che ripetutamente ha mancato ai suoi impegni familiari. Dev’essere chiaro che questo non è l’ideale che il Vangelo propone per il matrimonio e la famiglia” Amoris Laetitia, 296.
69 cfr. La Intervista a Papa Francesco di Padre Antonio Spadaro in L ‘Osservatore Romano CLIII, n. 216 21/09/2013.
70 cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica n.1422 e ss.
71 Die Freude der Liebe. Betrübnisse und Hoffnungen , cit. p. 28.
72 ibidem p. 31
73 Mt. 18, 6/10
74 Lc. 11, 15/32
75 Mt.10, 1 e ss.
76 ibidem 11, 9 e sms
77 ibidem 12 1 e S
78 ibidem 12, 9 e ss
79 Mt. 14, 63/66
80 S. Paolo Ga. 2, 1 e ss
81 cfr. Rouillard Philippe Storia della Penitenza dalle origini ai giorni nostri, Brescia, Queriniana, 2005 per vedere come la disciplina della penitenza sia cambiata nel tempo.
82 ibidem p. 31
83 sembra che in generale Seifert e gli avversari di Amoris Laetitia ignorino le categorie di lato soggettivo dell’azione, di circostanze attenuanti e di peccato veniale. Si tratta però di categorie consolidate ed assolutamente tradizionali per la teologia morale. Erano gli stoici, non i cristiani, quelli che volevano che tutte le colpe fossero egualmente gravi
84 Amoris Laetitia n. 303
85 Evangelii Gaudium n. 222/225
86 Nella sua nota 33 Seifert cita un gran numero di testi del Concilio di Trento che però sembrano essere del tutto irrilevanti per il tema che stiamo discutendo. Il canone 21 della VI Sessione pronuncia un anatema contro chi dica che Gesù è Salvatore ma non anche Giudice. Non vedo dove mai il Papa dice il contrario. il canone 2 della 24.Sessione lancia un anatema contro la poligamia. Il canone 5 sempre della 24.Sessione ci dice che il matrimonio non si può sciogliere per eresia, difficoltà della vita in comune o abbandono. Di nuovo: che c’entra? Il canone 7, sempre della 24.sessione replica la condanna di chi dice che il matrimonio si può dissolvere per adulterio di uno dei coniugi. Giustissimo, ma chi lo ha messo in dubbio? Certo, se uno non riesce a vedere l’area di comportamenti umani coperta dalle circostanze attenuanti e dal peccato veniale allora diventa automatico pensare che se, anche in un solo caso, un divorziato risposato riceve la comunione, allora il principio della indissolubilità è compromesso. Questo sembra essere l’errore fondamentale di tutti i critici.
87 Amoris Laetitia n. 334
88 Die Freude der Liebe: Freuden, Betrübnisse und Hoffnungen cit. p.48
89 vedi per esempio Amoris Laetitia n.297: “Ovviamente, se qualcuno ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole le imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa…ha bisogno di ascoltare di nuovo l’annuncio del Vangelo e l’invito alla conversione.”
90 Amoris Laetitia n. 301
91 Die Freude der Liebe: Freuden, Betrübnisse und Hoffnungen, cit. p. 50
92 Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 84: AAS 74 (1982), 186
93 Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 51.
94 Die Freude der Liebe: Freuden,Betrübnisse und Hoffnungen, pp.50/51
95 (Forse il commentatore non solo non ha letto bene il testo del Papa ma non ha letto bene nemmeno i numerosi testi del Magistero che cita nel tentativo di dimostrare la presunta eresia del Papa. Seifert sottolinea molto il fatto che qui sembra che il Papa dica che vi sono situazioni nelle quali si può scegliere solo fra due peccati. Questo sarebbe in contraddizione con una lunga serie di pronunciamenti del magistero che dicono che è invece sempre possibile, con l’aiuto della grazia, vedere la verità ed agire in conformità ad essa, fare insomma “la cosa giusta”. Certamente il peccatore del quale il Papa ci parla non sta facendo la cosa giusta. Nel tentativo di uscire dalla situazione sbagliata nella quale si trova corre il rischio, se non sta attento e non commisura i suoi passi alle sue forze, rischia di invischiarsi in una situazione ancora più sbagliata. Esiste una gradualità nel male come anche nel bene. Potremmo fermarci qui ma non ho saputo resistere alla curiosità di controllare i numerosi riferimenti dottrinali citati da Seifert. Molti, come abbiamo già visto in altra occasione, sono chiaramente non pertinenti. Ci occuperemo quindi di quelli che, prima facie, sembrano essere attinenti al caso di cui ci occupiamo. Il primo di essi è il canone 18 della VI Sessione del Concilio di Trento. Esso dice: “Se qualcuno dice che anche per l’uomo giustificato è costituito in grazia i comandamenti di Dio sono impossibili da osservarsi sia anatema”. Cosa vuol dire esattamente il Sacrosanto Concilio? Una prima e fondamentale regola ermeneutica ci suggerisce di leggere il testo nel suo contesto. Cosa dice il canone 17? Ed il canone 19? Il 17 colpisce con l’anatema chi dica che Dio dà la grazia solo ad alcuni e la nega invece ad altri secondo il suo imperscrutabile giudizio. Il 19 invece colpisce con l’anatema chi dica che per la salvezza serve solo la fede e non anche le opere. Adesso capiamo meglio: il Concilio condanna la dottrina protestante della predestinazione e della giustificazione mediante la sola fede e non anche mediante l’osservanza dei comandamenti. Di per se il Concilio ci dice che nel complesso della vita Dio da a ciascuno la grazia sufficiente a salvarsi. Ci dice anche che in ogni singolo momento della vita Dio dà grazia sufficiente a fare la cosa giusta e passare senza transizioni dalla colpa al perfetto adempimento della legge? Questo il Concilio non lo dice, non si pone affatto questo problema. Nega il Concilio che possa esservi una storia che contempla tappe intermedie in alcune delle quali si passa in forza di circostanze attenuanti dal peccato mortale a quello veniale? Nega che l’uomo possa corrispondere alla grazia di Dio in modo parziale? Anche questo il Concilio non lo nega. In generale il Concilio condanna chi è troppo avaro nel valutare la universale volontà di salvezza. Qui l’accusa di Seifert al Papa è quella opposta, di essere troppo generoso. È sempre pericoloso cercare di applicare una affermazione fatta in un contesto ad un altro contesto affatto differente. Il testo si legge sempre nel contesto. Ribadiamo comunque che, anche se la lettura che Seifert ci offre del Concilio di Trento fosse corretta, non varrebbe comunque contro Amoris Laetitia, cap. 8 che si occupa ex professo non della offerta della grazia ma della cooperazione umana (efficace ancorché imperfetta) con la grazia. Seifert cita poi la bolla Ex omnibus afflictionibus di S. Pio V. Ma la bolla citata è contro Michele Baio che era un fiero avversario dei gesuiti che accusava di lassismo esattamente come Seifert fa con il Papa. Lo stesso vale per la Costituzione Cum Occasione di Innocenzio X che è contro Giansenio e per la Costituzione Unigenitus di Clemente XI che è contro Pasquier Quesnel. In tutti questi casi la tesi condannata è che Dio lasci qualcuno senza l’aiuto della sua grazia. È esattamente la posizione opposta a quella di Papa Francesco).
96 Amoris Laetitia n. 297
97 ibidem n. 296
98 cfr Mt 18,17
99 ibidem n. 297