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Una rosa tra la neve. Un saluto alle sue consorelle
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Viene pubblicato il secondo articolo firmato da Adolfo Leoni sui monasteri presenti in diocesi, oggi dedicato al monastero benedettino di Santa Caterina a Monte San Martino

Nel soffio ci parla una voce che nostra non è. Il soffio... Come un vento leggero. Impalpabile. Etereo. E pure concreto. Occorrono sensi affinati, allenati per coglierlo. Occorre l'apertura del cuore, quasi uno spazio di ascolto profondo e, ancora una volta, di attesa...

 

Salgo le curve tortuose verso Monte San Martino. Giornata freddissima. Nei pressi del cimitero, Monache_vignacerco di scorgere il pezzo di campo che appartiene al monastero di Santa Caterina. Suor Beatrice lo ha lavorato fin quasi al momento della morte. «Con la Tua forza ma con le nostre mani», come se, potando la vigna, innestando una pianta, tagliando l'erba, elevasse una più forte preghiera al Creatore che la bellezza ha donato per farsi cogliere nel più umile dei particolari. Suor Beatrice è volata al Padre il 19 giugno dello scorso anno. Era una presenza fattiva e silenziosa. Determinante in monastero. La guardavano tutte. Ha lasciato un dono alle consorelle. Ha lasciato un roseto, e una rosa sbocciata solo pochi giorni fa, a gennaio, in pieno inverno, in un cespuglio carico di neve. È stata come una carezza di un altro mondo in questo. Un saluto. Una presenza ancora presente. Una rosa «viva e palpitante» mi dice quasi commossa la Madre Badessa suor Stefania. I segni... Quanta attenzione dovremmo loro...

 

Il grande monastero benedettino, che risale al 950/1000, è stato colpito duro dal terremoto. Inagibile quasi completamente. Non più parlatorio, non più chiesa, non più laboratori, non più stanze per ospitalità, non più refettorio, non più camere, non più possibilità di gruppi in visita e confronto. Le 17 monache (la più giovane è suor Letizia, 36 anni, la più anziana suor Norberta, 94) si sono spostate nell'area “nuova”, attigua, molto più esigua. Ma la comunità continua, con l'entusiasmo di sempre, anzi di più.

Si sono sistemate nella Casa dedicata a San Giuseppe. C'è un calco che richiama il “Padre putativo” di Gesù. È incastonato nella parete destra dell'ingresso, superato il cancello in ferro e vetro. Il calco è opera dell'artista Giovanna Priori, sorella del rettore del Santuario della Madonna dell'Ambro, padre Gianfranco, cappuccino.

«È stata la vecchia Madre Gabriella Foresi – racconta Madre Stefania - a farci amare profondamente san Giuseppe. Lei ne era una fermissima devota. Ogni mercoledì gli dedichiamo una giornata di preghiera e una santa messa». In un parlatorio rimediato, con un tavolo e due sedie, a due passi dall'ascensore, parliamo dei sogni di San Giuseppe, e dei segni che ha saputo sempre interpretare, dei particolari minimi che lui, falegname di Nazareth, era capace di cogliere: i dettagli dell'Assoluto. Del suo silenzio «che non è assenza di parola, ma spazio di apertura». Come una dilatazione del cuore per accogliere il Signore: il necessario, cioè, l'essenziale. Come una voce che dica: «Adesso basta, adesso pensa solo a Me».

 

Il monastero si erge come una fortezza di spiritualità e nuova vita. Si trova all'ingresso del monastero-ms-martinopaese che annovera grandi opere dei fratelli pittori Carlo e Vittore Crivelli, e pure sembra essere in un canto, legame tra due universi che si compenetrano. Si prega per il mondo, ma non per l'astrazione di una umanità generica, si prega per i visi, i volti delle persone, per le richieste, tante, di aiuto e sostegno spirituale. Quanta sofferenza in giro, dice la Madre, e quanti messaggi arrivano. E, allora: pregare pregare e pregare ancora. E lavorare... Come invitava a fare san Benedetto, il fondatore, colui che in un mondo impazzito e tra gente che fuggiva la violenza, si fermò, costruì, ricostruì, amò, formò comunità di monaci eterogenei, integrò, ridiede vita alla vita. E fiato al cristianesimo.

 

Quando sono arrivato dinanzi alla porta laterale della Casa, mi ha invaso un profumo di condimenti. Si stava preparando il pranzo. La monaca che mi ha aperto ha sorriso, portava la scopa in mano, aveva la faccia lieta. Letizia: una parola quasi scomparsa dal vocabolario, sostituita da piacere, che però evoca altro. Invece, in quel volto di monaca che rassetta c'era propria essa: la letizia. Si può vivere così? Si può, lo si vede, lo si sperimenta. È la stessa letizia che colgo nel volto di una giovanissima che passa, mentre dialogo con la Badessa, indossa un grembiule e un velo celeste, rapida e quieta. Qui si è felici! Felicità che non è assenza di assilli. Quanto vorrebbero le monache tornare al loro monastero, agli spazi più ampi, all'ospitalità, alla loro chiesa. È un cruccio che i lavori non siano iniziati. Ma tutto è segno. Anche questa mortificazione. «Avrà sicuramente un significato» sembra dire madre Stefania. Magari può essere l'incontro con due giovani laureande (una marchigiana e una abruzzese) alla Politecnica delle Marche. Studiano il monastero, la sua stabilità. Ne redigono una tesi. E incontrano le monache.

 

La vita monastica è sempre la medesima, ha i suoi ritmi ben scanditi: i sette momenti di preghiera che si srotolano nella giornata, il silenzio è assoluto dalle 21,30 sino alle 9, ed ancora dalle 14 alle 15. Il parlare sotto voce negli altri momenti, l'evitare le troppe parole come insegnava san Benedetto. L'uomo dalle troppe parole non cammino dritto sulla strada...

E poi il lavoro quotidiano: il ricamo, le icone, la campagna, la cura degli animali da cortile, le galline («è arrivata anche una capretta recentemente: è nata a Natale, come un dono, un altro»).

C'è un piccolo ripostiglio nella Casa dove le monache tengono in ordine vestiti e scarpe che gli amici del monastero portano per i più poveri. Prima i bisognosi bussavano alla porta, li si faceva accomodare, c'erano abiti da consegnare e parole di conforto e speranza da pronunciare. Oggi, causa Covid, è cambiata la modalità. Sono le “sorelle” ad avvertirli di passare, singolarmente, con precauzione. «Accogliamo nel silenzio il grido dell'umanità ferita», dice la Badessa, «Si va avanti. Tutto è perdonato. Dio è misericordia».

 

Sto uscendo: guardo la statuetta di san Giuseppe che è vicino al corridoio mentre quella del Fondatore, che reca la Regola nella mano sinistra, è su un piano, ben visibile.

Due caposaldi della fede. Due testimoni giganteschi. 

Mentre salgo in auto, mi torna una frase colta ad un convegno, diceva: «Non cambi il mondo con una idea di come renderlo migliore, ma in forza di qualcosa di reale da cui puoi cominciare a guardare il mondo diversamente». Queste nostre “sorelle” lo guardano proprio così, diversamente. E lo trasformano: esempi viventi di cambiamento in atto.

C'è ancora un po' di neve ai bordi della strada. Tra poco saranno i giorni della merla: i più freddi dell'inverno ma sulla strada della primavera... Unico rammarico: non aver chiesto il “menù” del giorno.

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