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Notiziario Santa Vittoria

LA PAROLA A CURA DI DON ALESSANDRO
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25 GENNAIO 2015 III DOMENICA TEMPO ORDINARIO ANNO "B"


Gio 3,1-5.10; Sal 24; iCor 7,29-31; Mc 1,14-20

Le letture di oggi sottolineano la grande voglia che Dio ha dì condividere con noi il bene. Infatti non esiste gioia più grande del fare il bene: per questo Dio fa di tutto per attirarci a questa gioia ed usa ogni mezzo per contrastare la stoltezza dell’egoismo: occorre convertirsi.
Giona — racconta la parabola — va e contesta la corruzione di Ninive. Giona si decide a collaborare con Dio. Egli ha il coraggio di parlare a nome di Dio, anche se ciò è scomodo e controcorrente. Ma è pur sempre un gesto di carità. Infatti voler bene talvolta significa anche rimproverare; voler bene significa anche dire la verità; voler bene significa anche contestare un comportamento, affinché la vita si rinnovi. Ma Giona, purtroppo, dopo aver contestato la cattiveria di Ninive non è pronto per l’ora della misericordia. Egli vorrebbe restare sempre all’ora della severità, al momento della denuncia del peccato. Per questo, davanti alla conversione di Ninive e all’immediato perdono di Dio, Giona entra in crisi e non capisce più la bontà di Dio: la trova eccessiva, la trova troppo accomodante. Giona addirittura diventa geloso della bontà di Dio che perdona Ninive e preferirebbe un Dio vendicativo e intollerante. Quanto è comune anche questa situazione, che è una involuzione religiosa! E il rischio dei collaboratori di Dio, è il rischio dei cristiani di tutti i tempi. Ogni credente infatti è tentato di usare il cuore di Dio per sovrapporlo alle proprie debolezze e talvolta ai propri rancori e alle proprie vendette, mentre invece il credente in Dio è sempre chiamato a superare se stesso per vivere la misericordia di Dio. Chissà quanta gente avvicinandosi a noi, ha cercato un’eco della bontà di Dio... e non l’ha trovato!
Il brano evangelico ci offre l’occasione di precisare cosa s’intende, nel cristianesimo, per conversione. Dobbiamo sfatare subito due pregiudizi. Primo, la conversione non riguarda solo i non credenti, o quelli che si dichiarano «laici», ma ci riguarda tutti: tutti abbiamo bisogno di convertirci. Secondo, la conversione, intesa in senso evangelico, non è sinonimo di rinuncia, sforzo e tristezza, ma di libertà e di gioia. Prima di Gesù, convertirsi significava sempre un «tornare indietro» (il termine ebraico, shub, vuol dire invertire rotta, tornare sui propri passi). Indicava l’atto di chi, a un certo punto della vita, si accorge di essere «fuori strada»; allora si ferma, ha un ripensamento; decide di cambiare atteggiamento e tornare all’osservanza della legge e di rientrare nell’alleanza con Dio. Fa una vera e propria inversione di marcia, una «conversione a U». La conversione, in questo caso, ha un significato morale; consiste nel cambiare i costumi, nel riformare la propria vita.

Sulle labbra di Gesù, questo significato cambia: perché, con la sua venuta, sono cambiate le cose. Convertirsi non significa più tornare indietro, all’antica alleanza e all’osservanza della legge, ma significa piuttosto fare un balzo in avanti ed entrare nel Regno, afferrare la salvezza che è venuta agli uomini gratuitamente, per libera e sovrana iniziativa di Dio.
Conversione e salvezza si sono scambiate di posto. Non c’è più, per prima cosa, la conversione da parte dell’uomo e quindi la salvezza, come ricompensa da parte di Dio; ma c’è prima la salvezza, come offerta generosa e gratuita di Dio, e poi la conversione come risposta dell’uomo. L’idea che sta sotto non è più: «convertitevi per essere salvi, convertitevi e la salvezza verrà a voi», ma è: «convertitevi perché siete salvi, perché la salvezza è venuta a voi!». In questo consiste il lieto annuncio: Dio non aspetta che l’uomo faccia il primo passo, che cambi vita, che produca opere buone, quasi che la salvezza fosse la ricompensa dovuta ai suoi sforzi. No, prima c’è la grazia, l’iniziativa di Dio. In questo, il cristianesimo si distingue da ogni altra religione: non comincia predicando il dovere, ma il dono; non comincia con la legge, ma con la grazia.
Gesù, con il suo comportamento, conferma lo stile che Dio ha costantemente rivelato nella storia di Israele. Gesù chiama alcuni pescatori di Galilea perché stiano con Lui, perché credano nella sua persona, perché ne parlino agli altri. Perché Gesù ha chiamato gli apostoli? Perché è volontà di Dio coinvolgerci, renderci responsabili, farci gustare la gioia del bene. Infatti Dio chiama per dare, non per prendere: e fare il bene è ricevere un grande dono. Suscitò emozione il gesto di una giovane suora veneta che, dopo aver terminato in Italia il ciclo di cure, volle ritornare in Birmania, in un campo profughi dove ella aveva contratto la lebbra. Ella così si giustificò: “Il mio posto è là. Non potrei più essere felice, se non tornassi in mezzo ai miei lebbrosi”. Pensate: “Non potrei più essere felice... “. Dio chiama per dare la gioia che Lui solo possiede e coincide con il Suo Amore. E perché Gesù sceglie i pescatori? Perché soltanto chi è povero o si fa povero ha il cuore capace e pronto per accogliere Dio. La bontà onnipotente di Dio non trova spazio in un cuore arrogante: per questo Dio cerca i piccoli, i miti, gli umili. Kierkegaard scriveva: “Fin quando si ama il proprio amico, non si può ancora dire se si ama Dio; ma quando si ama il proprio nemico, allora si che è chiaro che si ama Dio”.
Anche noi siamo stati chiamati ad amare. Anche noi abbiamo una vocazione all’amore. Anche la nostra vocazione è necessaria per la crescita del Regno di Dio... Ma noi stiamo vivendo la chiamata di Dio o abbiamo bisogno di conversione?

BUONA DOMENICA

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