Centro San Rocco - Interventi

Slavi e Albanesi nelle Marche del Quattrocento e del Cinquecento
Data pubblicazione : 01/12/2019
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Intorno a questo tema si è sviluppato il secondo incontro del ciclo "Noi, lo Straniero", con la partecipazione del prof. Marco Moroni. - di Luca Romanelli

Schiavi, Morlacco, Albanesi (a don Vinicio fischieranno le orecchie): questi cognomi familiari sono le tracce di ripetute migrazioni dall’area balcanica che si sono succedute a partire dalla fine del ‘300 nel Piceno ed in generale nella costa Adriatica italiana.

La causa principale è da ritenersi la peste, scoppiata in Italia nel 1348 e rimasta endemica, con ondate successive, fino alla metà del ‘600. La ricca Italia, che aveva conosciuto nei secoli precedenti uno sviluppo economico e demografico imperioso, perse un terzo della popolazione e si ritrovò senza braccia. Dall’altro lato del mare, dove l’epidemia fu più clemente, le frequenti carestie spinsero molte famiglie a migrare. Difficile quantificare l’esodo, ma dai documenti catastali dell’epoca risulta in alcune zone che la percentuale di immigrati dall’area balcanica poteva arrivare fino al 20%.

Non mancarono, allora come oggi, le resistenze da parte della popolazione ospitante. Si temeva in particolare che lo straniero portasse la peste e numerose espulsioni fuori dalle mura cittadine furono decretate. Tuttavia, le forze economiche lavorarono lentamente nella direzione dell’integrazione.

Nelle città servivano operai per le attività artigianali e per i servizi, normalmente quelli più umili e faticosi. Le donne andavano a servizio nelle famiglie (con regolare contratto). Nelle campagne dissodavano campi marginali che erano stati abbandonati per mancanza di braccia. A ricompensa degli scozzantes (così venivano chiamati) veniva spesso riconosciuta loro una parte della terra recuperata alla produzione.

Al duro lavoro si affiancò col tempo un potente strumento di integrazione: la religione. I Turchi, che avevano occupato i Balcani, non obbligavano i cristiani alla conversione, pur penalizzandoli economicamente. La diffusione dell’Islam in Albania e Bosnia fu dunque un processo lento. Schiavoni, morlacchi e albanesi arrivati in Italia cominciarono a riunirsi in confraternite, spesso dedicate a santi della loro tradizione, come Santa Venera. Queste funzionavano da elemento “civilizzatore” e identitario, oltre che da società di mutuo soccorso. Sia pur con fatica, vennero alla fine accettate come parte della comunità religiosa, ottenendo il permesso di sfilare nelle processioni principali, che al tempo raffiguravano plasticamente le gerarchie sociali delle città.

A differenza delle regioni del Sud (Sicilia, Calabria e Basilicata in particolare) dove permangono comuni che conservano l’identità e la lingua antica parlata dagli avi albanesi, da noi la dispersione e l’integrazione etnica fu favorita dall’affermarsi della mezzadria e del relativo obbligo di dimorare nel campo, che progressivamente svuotò i villaggi balcanici che l’iniziale ostilità avevano contribuito a creare.

Niente di nuovo sotto il sole quindi: ieri come oggi le forze vitali lavorano nel tempo e dissolvono barriere e differenze, reinventando continuamente la multipla identità dei popoli.

Luca Romanelli – 1 Dicembre 2019

 

Intervista al prof. Marco Moroni

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