Centro San Rocco - Interventi

In dialogo con ... Marco Ronconi
Data pubblicazione : 18/12/2020
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Un aiuto a rileggere e comprendere i contenuti trasmessi dal teologo Marco Ronconi nel primo incontro online del ciclo "In rete con la teologia - cristiani nella Pandemia". - di don Giordano Trapasso

L’incontro e il dialogo con il teologo Marco Ronconi è stato sicuramente un momento stimolante per la nostra riflessione e il nostro discernimento sulla vita della comunità cristiana in questo tempo di Covid. Vorrei rilanciare tre aspetti, pensando soprattutto al discernimento cui siamo chiamati tutti, soprattutto nei nostri organismi di partecipazione.

Il primo riguarda la premessa alle risposte che egli ha dato poi alle quattro domande che gli sono state rivolte. La complessità è ormai una caratteristica del vissuto cristiano, a livello personale e comunitario. Siamo in un cambiamento d’epoca, in cui vediamo slittare o venir meno ciò che prima ci sembrava automatico, facile, familiare. Sfide nuove ed inedite ci interpellano, di fronte alle quali anche nella Chiesa possono essere date risposte molto diverse tra loro ed anche opposte. Tra fratelli che condividono i medesimi scopi e obiettivi possono emergere atteggiamenti contrari. Complessità significa tenere presenti aspetti diversi di una medesima realtà, non sempre complementari e difficilmente integrabili. Essa non può che prevedere il conflitto che va riconosciuto, accettato e affrontato a tal punto da renderlo un anello di collegamento di un nuovo processo. Possiamo parlare di “conflitto creativo”, a patto di rimanere fedeli ai due criteri dell’unità che prevale sul conflitto e del tutto superiore alle parti. Le diverse anime non possono eludere un confronto franco condotto seguendo una retta coscienza, riconoscendosi tutti in ricerca di un bene che trascende le varie posizioni, presentando le varie concezioni in modo che tutte siano sottoponibili a critica. Nella nostra arcidiocesi non siamo stati esenti dal manifestarsi di diverse opinioni e dall’esperienza del conflitto, già prima dell’emergenza sanitaria. Diverse concezioni di fede, religiosità, liturgia, chiesa. Non possiamo censurare né lasciare certe posizioni nell’isolamento, ma occorre creare le condizioni per un dialogo rispettoso delle suddette condizioni. Nell’anno che ormai volge al termine, Google ha verificato che il principale motore di ricerca dato dagli utenti è il “perché” delle cose che avvengono. Nel confronto franco questo potrebbe essere un buon esercizio da chiedere ad ogni interlocutore: non smettere di cercare le ragioni profonde di ciò che si afferma, non smettere di chiedersi il “perché” di riti, consuetudini, abitudini della vita precedente al Covid, continuare a chidersi il perché di ciò che si vorrebbe proporre nel futuro. Proprio la ricerca del “perché” ci accomuna in quanto umani e può permetterci di prospettare insieme vie nuove.

In relazione all’esperienza “liturgica” durante la pandemia, Ronconi ci ha invitato a cogliere in questo tempo un’occasione per costruire qualcosa di nuovo a partire da ciò che oggettivamente “funzionava” poco prima della pandemia. La via maior seguita è stata la diffusione di riti e celebrazioni su streaming con tutte le criticità che ciò comporta: un rito in cui il presbitero (e pochissimi altri) è protagonista e altri spettatori passivi, un’esperienza in cui il corpo di Cristo sull’altare appare visibilmente separato dal corpo di Cristo che è l’assemblea che celebra. Abbiamo avuto le chiese vuote o semivuote durante il primo lockdown, abbiamo le Chiese meno gremite di prima alla ripresa delle celebrazioni. Vorrei cogliere la provocazione del filosofo e teologo della Repubblica ceca Tomas Halik che accosta il segno delle Chiese vuote al sepolcro vuoto del mattino di Pasqua per intravedere in esse un invito alla ripartenza del cristianesimo. Ripartire da chi? Egli così scrive: “La principale linea di divisione non è più tra quanti si considerano credenti e quanti si considerano non credenti. Vi sono cercatori tra i credenti (coloro per i quali la fede non è un retaggio, ma una vita) e fra i non credenti, che respingono i concetti religiosi proposti loro da quanti li circondano, ma provano comunque il desiderio di qualcosa che soddisfi la loro sete di significato”. La pandemia ha fatto saltare i tradizionali schemi cui eravamo abituati: il cristiano è colui che va a messa a differenza di chi non ci va, un conto è il cristiano impegnato in parrocchia, un conto è il cristiano più lontano perché non impegnato. Una grande parrocchia della nostra arcidiocesi ha visto seguite da molte persone le proprie celebrazioni trasmesse su streaming. Di queste una parte era costituita di persone che non partecipavano fisicamente alle liturgie comunitarie. Probabilmente questo tempo ci consegna un buon gruppo di cercatori tra coloro che hanno seguito le liturgie trasmesse pur non avendole prima vissute nella comunità e tra coloro che prima partecipavano fisicamente e ora ancora non si affacciano nei nostri luoghi di culto. Il Risorto dice ai discepoli che lo avrebbero incontrato in Galilea. Potrebbe essere un esercizio di discernimento opportuno se ogni realtà ecclesiale si chiedesse: “Dov’è la Galilea di oggi dove possiamo incontrare il Cristo vivente?”.

Il terzo invito che ho colto nell’intervento di Ronconi è quello di interiorizzare lo spirito della perla del Concilio Vaticano II e il travaglio che ha portato alla sua nascita: intendo la Costituzione Pastorale Gaudium et Spes. In questo obiettivo ci è certamente di aiuto il Magistero di Papa Francesco. Tale Costituzione ci ricorda che Chiesa e mondo non sono scindibili, che la Chiesa è nel mondo, pur non essendo il mondo e non essendo del mondo. Il mondo ha sicuramente bisogno della Chiesa come segno profetico di unità e fraternità, che costituiscono il sogno di Dio sull’intera umanità, ma la Chiesa ha bisogno del mondo per comprendere il tempo in cui si vive e poter incarnare in esso il Vangelo. Non possiamo ridurre il dialogo complesso e fecondo tra Chiesa e mondo alla rivalità tra Chiesa e Stato o alla suddivisione di competenze tra le due realtà. Già in Gaudium et Spes la Chiesa si rende disponibile, nel mondo contemporaneo, ad “illustrare il mistero dell’uomo” e a “cooperare nella ricerca di una soluzione ai principali problemi del nostro tempo”. Papa Francesco oggi tradurrebbe tutto questo spingendo ad una scelta missionaria che cambi profondamente, a tutti i livelli, la presenza della comunità cristiana nella storia, invitando ad avviare processi, non ad occupare spazi. Di fronte ai principali problemi di questo tempo la Chiesa non può recare risposte assolute e definitive, ma è un interlocutore che porta in umiltà il suo contributo nel suo servizio all’uomo. Se non percorriamo questa via, il rischio, come ci ha ricordato Ronconi citando un passaggio del teologo Dianich di diversi anni fa, è quello di essere una Chiesa a – politica alla base e politicizzata al vertice, con i Vescovi come quasi unici protagonisti nel dialogo con le istituzioni. Potrebbe essere un buon esercizio per le nostre parrocchie allenarsi a cercare i “segni di questo tempo” e della presenza del Regno di Dio al di fuori delle Chiese e dei locali parrocchiali, nell’esperienza del soffrire, negli ospedali, nelle RSA o nelle case di riposo, nell’impegno didattico, educativo e di apprendimento profuso quest’anno da docenti e studenti, nelle diverse reti di solidarietà che si sono costituite nei nostri territori, anche grazie a noi e con noi. In secondo luogo è importante non smettere mai di riflettere sul solco aperto da Gaudium et Spes e ripreso oggi dal Magistero dell’attuale Pontefice.

don Giordano Trapasso

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