Nella memoria di molti di voi, come nella mia, è rimasto indelebile il ricordo del 15 marzo scorso, quando la nostra diocesi visse il suo pellegrinaggio giubilare a Roma. La fatica del viaggio all’alba, il ritrovarci, provenienti da varie realtà, all’inizio della processione da Piazza Pia, il cammino orante verso la Porta Santa, l’ingresso in una basilica vuota che a poco a poco si riempiva per celebrare insieme l’Eucaristia. Vi assicuro che per me fu un’emozione unica vedere, per la prima volta, una porzione così importante del nostro popolo di Dio, che chiedeva di essere confermato nella fede sulla tomba di Pietro per rafforzare la speranza nel cammino verso il Regno.
In questo anno tante sono state le occasioni liturgiche per vivere e rivivere la spiritualità giubilare, in particolare attraverso il sacramento della Riconciliazione, il pellegrinaggio e le opere di carità; abbiamo ricevuto l’indulgenza plenaria, anche per i nostri defunti. Noi presbiteri, qualche giorno fa, abbiamo vissuto il nostro giubileo sacerdotale alla Casa del Clero, avendo l’occasione di concelebrare l’Eucaristia e condividere la mensa con molti nostri confratelli anziani che vivono l’esperienza della fragilità e della malattia.
Sono certo che sia stato per tutti un anno di rigenerazione spirituale. Tuttavia, poiché spesso ci prende una strana forma di consumismo anche spirituale per cui, passato l’anno, “anche questa è fatta”, è doveroso sostare e chiederci come evitare di ritornare nel torpore della routine, in attesa della prossima occasione straordinaria. Quali parole possono accompagnarci ora nella quotidianità? Ne suggerisco tre.
La prima è cammino, archetipo dell’esperienza umana e che abbiano concretizzato attraverso il pellegrinaggio. I tanti “cammini” che suscitano sempre più interesse, l’adesione ai tanti pellegrinaggi verso mete spirituali, che non sembra conoscere crisi dicono che siamo animati da un desiderio di ricerca, che va accolto ed evangelizzato. Il nostro non è un camminare a vuoto; sappiamo di aver incontrato il Signore e ormai la nostra vita è per sempre salvata da questo incontro di fede. Ma abbiamo bisogno di ricercarlo ancora, di aiutare altri a mettersi in cammino, per approfondire, maturare e convertirsi, abbandonandoci in ginocchio, come i Magi, davanti all’Altro da noi.
La sensazione che talvolta trasmettiamo, come Chiesa, è invece di immobilismo. Rassomigliamo più ai saggi di Erode che sapevano tutto ed erano a due passi da Betlemme ma rimasero immobili, compiaciuti nelle loro certezze rassicuranti, nella loro zona di comfort. Deve inquietarci il rischio dell’irrilevanza della fede nella vita
concreta delle persone, per non parlare dell’ambito sociale e politico, dove la comunità cristiana sembra impotente (o indifferente) riguardo al fenomeno che qualcuno chiama “disconnessione civica”, il progressivo disimpegno dal bene comune, il cui sintomo inquietante è il crescente astensionismo elettorale. Cari fratelli e sorelle, carissimi sacerdoti, stiamo diventando sempre meno ma intensifichiamo di iniziative ed eventi confidando che gli altri “camminino” verso di noi. Dobbiamo imparare a rendere essenziali le nostre proposte e a convertire la pastorale osando di più nel senso di un peregrinare, andando oltre il recinto.
Connessa al cammino è la seconda parola: insieme. Non è difficile trovare leader che intraprendano cammini di evangelizzazione anche arditi, grazie a carismi comunicativi, a risorse e, specie nel nostro tempo, a mezzi tecnici adeguati; i social sono affollati da comunicatori anche religiosi. Ma tutto questo coinvolge fino al punto di fare passi in avanti come comunità? Il Giubileo nasce come esperienza comunitaria; il cammino sinodale ci ha sollecitati a metterci insieme, a raccordarci, ad integrarci per il bene dell’evangelizzazione; soprattutto ci ha richiamati alla corresponsabilità per la missione. È giunto il tempo di compiere passi concreti: da parte degli uffici pastorali che, ogni volta che è possibile, si mettono insieme per pensare poche ma mirate iniziative, anche in collaborazione con quanti, non per forza credenti, condividono la passione per l’umano; dalle parrocchie che possano considerare l’ambito della vicaria un possibile luogo di discernimento e apertura missionaria verso le persone, ai presbiteri che non temono di cedere sovranità quando si fidano dei laici e con loro condividono non solo il fare ma il pensare (anche Erode temeva di perdere sovranità); e si potrebbe continuare. Io stesso, come pastore di questa bella Arcidiocesi, ho bisogno di essere sostenuto nel discernimento perché il mio ministero sia efficace.
L’ultima e decisiva parola, dopo cammino e insieme, è sicuramente speranza, che è stato il filo conduttore di questo Anno Santo; virtù teologale che non sempre è intesa in modo appropriato. Charles Péguy scrisse un memorabile poema in un momento buio della sua vita; definì la speranza virtù bambina di cui lo stesso Dio rimane sorpreso.
Dice Dio: “Che questi poveri figli vedano come vanno le cose e credano che domani andrà meglio. Che vedano come vanno le cose oggi e credano che andrà meglio domattina. Questo sì che è sorprendente ed è certo la più grande meraviglia della nostra grazia. Ed io stesso ne son sorpreso. E dev’esser perché la mia grazia possiede davvero una forza incredibile. E perché sgorga da una sorgente e come un fiume inesauribile (…). E quella volta, oh quella volta, da quella volta che sgorgò, come un fiume di sangue, dal fianco trafitto di mio figlio. Quale non dev’esser la mia grazia e la forza della mia grazia perché questa piccola speranza, vacillante al soffio del peccato, tremante a tutti i venti, ansiosa al minimo soffio, sia così invariabile, resti così
fedele, così eretta, così pura; e invincibile, e immortale, e impossibile da spegnere (…). Ciò che mi sorprende, dice Dio, è la speranza”.
Il compianto Papa Francesco, nella Spes non confundit (n. 3), riprende lo stesso concetto ricordandosi che la speranza “nasce dall’amore e si fonda sull’amore che scaturisce dal Cuore di Gesù trafitto sulla croce: «Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5,10). E la sua vita si manifesta nella nostra vita di fede, che inizia con il Battesimo, si sviluppa nella docilità alla grazia di Dio ed è perciò animata dalla speranza, sempre rinnovata e resa incrollabile dall’azione dello Spirito Santo”.
Ogni volta che celebriamo l’Eucaristia, ogni volta che rendiamo concreto l’amore celebrato nel servizio ai poveri, alle persone ammalate e a tutti quelli nei quali Gesù si è identificato, ogni volta che lasciamo prevalere il bene più grande della comunione sul nostro individualismo, viviamo e testimoniamo una speranza credibile, evangelizzante, e che sosterrà il nostro cammino di pellegrini.
Chiediamo la protezione della Santa Famiglia, di Maria che con il suo sì ha dato concretezza alla storia della salvezza, di San Giuseppe, che con la sua sollecitudine si è inserito in questa storia, prendendosi cura della sua famiglia e si è fidato di Dio. Giuseppe non ha avuto esitazioni ad alzarsi (si cita 4 volte nel vangelo) e a muoversi per mettere in salvo il Bambino. Se il prendersi cura è stata la cifra della Santa Famiglia, che anche la nostra Chiesa di Fermo, alle soglie di un nuovo anno, sappia alzarsi per prendersi cura gli uni degli altri, e così annunciare la nostra perla preziosa che salva, Gesù Cristo nostro Signore.
