Le logiche economiche armano le logiche belliche

Le logiche economiche armano le logiche belliche
Le disuguaglianze sono una ferita non solo sociale, ma antropologica. L’economia non è più tanto la causa dei conflitti, ma il campo di battaglia.
Viviamo un tempo in cui l’economia, da carrozza motrice del benessere condiviso e della transizione ambientale, rischia di diventare strumento di guerra e di sopraffazione. Se leggendo la storia, è facile ritrovare traccia di conflitti scaturiti da motivazioni esplicitamente economiche – conquista di risorse, controllo di rotte, accesso ai mercati – oggi viviamo il paradosso di un tempo in cui i conflitti più sanguinosi non presentano un movente economico prioritario. In Palestina non si colpisce per il petrolio e non sono i campi agricoli della grande pianura ucraina a mobilitare l’esercito russo, in Sudan la brama di arricchimento sta sullo sfondo delle cause della guerra civile che insanguina il Paese. Cionondimeno l’economia sembra progressivamente asservita alle logiche di potenza, alla militarizzazione della spesa pubblica, alle strategie imperiali dei grandi blocchi. La conseguenza è drammatica: mentre le élite alimentano la corsa agli armamenti, il peso reale ricade su chi già vive ai margini della società, pagando le conseguenze di gravi forme di ingiustizia sociale. Non a caso, i Paesi più equi dal punto di visto economico sono quelli meno disponibile a farsi coinvolgere in logiche belliche. Le preferenze politiche della cittadinanza – in condizioni di equità – tendono a rivolgersi altrove: welfare, istruzione, sanità. Ben lungi da mire belliciste, che per conseguenze polarizzano la società, sottraendo risorse al welfare e spazi alle politiche di inclusione. Il denaro non spiega tutto, ma certamente possiamo dire che senza giustizia economica non sembra poterci essere pace. A questo proposito, è urgente smascherare la retorica: non basta far crescere l’economia in termini assoluti per sanare le divisioni esistenti. Questa visione riduzionista distrae da ciò che conta davvero: la qualità delle relazioni sociali, la distribuzione equa delle opportunità, la dignità del lavoro. Le disuguaglianze che crescono – entro i Paesi, fra aree geografiche, fra generazioni – sono una ferita non solo sociale, ma antropologica. E quando la ferita si fa profonda, la pace non regge: esplode il conflitto, sotto nuove forme.
Oggi circa 3,5 miliardi di persone vivono con meno di 6,85 dollari al giorno, e quasi 700 milioni in povertà estrema sotto i 2,15 dollari. In 49 Paesi l’indice di Gini supera 40, segnalando una concentrazione di ricchezza che esclude una parte consistente dell’umanità dalla partecipazione piena alle dinamiche del proprio tempo. Anche all’interno dei Paesi Ocse, il divario fra redditi e patrimoni ha raggiunto livelli storici: la distribuzione del capitale tende a premiare chi è già posizionato, amplificando la distanza fra chi beneficia di ampie rendite e chi sopravvive.
Il divario educativo di partenza resta una delle principali cause di iniquità: chi nasce in famiglie con bassa scolarità ha molte meno probabilità di accedere all’università o a lavori qualificati. La scuola, che dovrebbe essere leva di emancipazione, spesso diventa specchio delle disuguaglianze che dovrebbe correggere. Se dovremo rivolgere il 5% del Pil verso il riarmo, tra spese per la difesa (3,5%) e spese per la sicurezza (1,5%) il rischio di dover sottrarre a forme di spesa che promuovono giustizia sociale è forte. La crescita economica e l’aumento della spesa pubblica da sole non bastano: possono anzi diventare la cornice entro cui la disuguaglianza si legittima, consolidando un ordine economico estrattivo, competitivo, fragile. E, scopriamo oggi, più incline al conflitto.
Nel passato le guerre dichiaravano apertamente la loro natura economica. Dietro le bandiere c’erano miniere, pozzi, porti, canali. Oggi i conflitti si rappresentano prioritariamente come scontri identitari o geopolitici, ma restano fortemente condizionati dall’economia e, in particolare, dalle sue forme disfunzionali.
L’economia non è più tanto la causa dei conflitti, ma il campo di battaglia. Assistiamo a una trasformazione silenziosa: dall’economia libera all’economia bellica. La spesa militare cresce a ritmi che eclissano gli investimenti in sanità, istruzione, transizione ecologica. Le catene globali di valore si riconfigurano intorno a logiche di sicurezza più che di efficienza. Le tecnologie, nate per connettere, diventano strumenti di sorveglianza o deterrenza. Questa torsione produce un rischio di involuzione sistemica: le risorse che potrebbero ridurre disuguaglianze e povertà vengono dirottate verso la difesa, mentre il linguaggio della paura sostituisce quello della cooperazione.
Ma una pace costruita sulla paura non dura. Pensare la pace come semplice assenza di conflitto è riduttivo: non basta che cessino le ostilità, se restano intatte le condizioni di ingiustizia che le alimentano. La pace è un ordine di riconoscimento della dignità, un equilibrio relazionale che si regge su pilastri economici giusti, inclusivi e sostenibili. Ecco perché la giustizia economica non è un lusso etico: è il fondamento pragmatico della stabilità mondiale. Rigenerare il tessuto sociale significa investire nel capitale umano e culturale. L’educazione è l’antidoto più efficace all’involuzione bellica e identitaria: forma cittadini capaci di pensiero critico, di dialogo, di cooperazione. Nella società postindustriale il vero patrimonio di una nazione non è l’acciaio, ma il sapere diffuso; non le riserve di carbone, ma la capacità di generare conoscenza condivisa. Un sistema educativo solido riduce il rancore, disinnesca le semplificazioni strumentali, trasforma la paura dell’altro in curiosità verso la complessità.
Se l’economia è condizione e limite, e l’educazione è possibilità e sfida, la pace è il fine. Oggi, però, serve una visione economica capace di farsi ponte: tra Nord e Sud del mondo, tra capitale e lavoro, tra generazioni, tra potenze e popoli. La pace, in ultima istanza, non è un risultato diplomatico, ma un modo di abitare il mondo e implica la scelta di sottrarre l’economia alla logica della guerra per restituirla alla logica della vita.
Marco Marcatili (Economista, ‘Fabbrica Comune’)
Massimiliano Colombi (Sociologo, ‘Fabbrica Comune’)
Eventi dalla diocesi
Mercoledì 7 gennaio 2026, alle ore 21.15, presso l’auditorium di Villa Nazareth ci sarà un incontro di aggiornamento pastorale sul tema: Prassi virtuose di iniziazione cristiana in Italia. Interviene mons. Valentino Bulgarelli, Direttore dell’Ufficio catechistico della CEI.






