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Linee di etica teologica per la pace

La Chiesa deve cercare un dialogo permanente e costruttivo con altre esperienze religiose. La forza del perdono e quella della riconciliazione sono una condizione necessaria per la costruzione di una convivenza giusta e duratura

 

SerafiniLa guerra è tornata a far parte di una drammatica “normalità”. È dalla fine della seconda guerra mondiale che non ci trovavamo alla presenza contemporanea di scenari conflittuali, proprio nel momento in cui le capacità di distruzione delle armi disponibili hanno raggiunto livelli senza precedenti. Tale minaccia si intreccia poi con una crisi socio-ambientale che incombe e domanda azioni tempestive e coordinate a livello globale ad ora difficilmente realizzabili. Tocchiamo con mano il fatto che la connessione tra giustizia, pace, creato, è una indicazione obbligata per il presente e il futuro dell’umanità. Una riflessione etica teologicamente ispirata è in grado di elaborare una riflessione capace di spingere in questa direzione?

Il teologo morale Carlo Molari (1928-2022), nella sua ricerca di una teologia aperta al futuro, capace cioè di collocarsi in termini dialogici nello spazio pubblico, evidenziava «l’incidenza negativa che spesso hanno le formule teologiche in ordine all’educazione di uomini pacifici» e l’esistenza di una «teologia che rende difficile o impedisce l’educazione alla pace» (cf. C. Molari, Educare alla pace è anche parlare di Dio in modo diverso). Molari fa riferimento a quelle tipologie di discorso cristiano che fanno appello a un concetto di Dio che ben poco ha da  spartire col Dio di Gesù Cristo: il Dio mitico-sacrale e politico, funzionale al consolidamento del sistema culturale e sociale che ha dato forma alla cosiddetta «civiltà cristiana». A ciò si affiancava una «lettura schizofrenica del  discorso della montagna» che ha prevalso nella chiesa, secondo la quale si ritenne di dover interpretare alla lettera le espressioni relative alla morale personale, mentre le norme relative alla morale sociale e alla non violenza furono intese in senso debole e traslato, come meri consigli per un eroico cammino di santità singolare (Mt 5,38ss.),  inapplicabile alla grande comunità umana.

Vi è dunque la convinzione che un annuncio efficace di pace comporti anzitutto una conversione spirituale alla quale deve corrispondere «una teologia purificata da tutti gli elementi di violenza e di assolutismo». Dovrebbero cioè essere revisionati alcuni discorsi teologici alla luce della categoria della pace. Ad esempio, la concezione di un Dio onnipotente inflessibile con i (nostri) nemici, deve cedere il posto alla figura molto diversa del Dio salvatore rivelatoci da Gesù Cristo: un «Dio della pace e della giustizia e non della vendetta, Dio della fraternità e  all’amicizia sociale e non della supremazia, Dio della risurrezione e della speranza e non della vittoria».

NelSerafini_duele parole di Gesù troviamo infatti il rifiuto della violenza rafforzato da una messa in discussione del concetto  stesso di «nemico» in nome del riferimento della provvidenza di Dio che a tutti, senza distinzione alcune, «dona la pioggia» (cf. Mt 5, 45). Ciò non significa tuttavia ignorare la conflittualità, ma rifiutare di trasformarla in  contrapposizione strutturale. Gesù invita persino a pregare per i persecutori (cfr. Mt 5, 44). Alla polarità amico-nemico che costituisce uno dei fattori che strutturano la storia della convivenza umana e contribuiscono alla presenza della violenza, la Scrittura sostituisce l’utopia di un mondo riconciliabile e riconciliato. Essere chiamati a pregare per il nemico significa ritrovare in lui la persona, un essere umano, un volto con cui si può essere in situazioni di conflitto, senza però che ciò comporti un’opposizione globale e definitiva. Significa spezzare l’odio che il conflitto innesca, la spirale della vendetta e la tendenza all’escalation che essa porta con sé. Occorre in definitiva cambiare sguardo sull’altro. Le parole e i gesti di Gesù, spingono in tal senso a falsificare la tenebrosa realtà storica del principio di Thomas Hobbes: homo homini lupus, e a sostituirlo con il vero principio della convivenza umana: homo homini homo, «l’uomo sia uomo per l’uomo». Operare per la pace significa, dunque, estendere le dinamiche relazionali fraterne in pratiche sociali, processi culturali, politiche di riconoscimento. La pace è infatti frutto di un «operare artigianale» (cf. papa Francesco), che sa agire nel lungo periodo, guardando alla contraddittorietà del presente alla luce dell’utopia, attraverso la promozione di azioni di mediazioni svolte da agenzie internazionali.

Per compiere una tale missione, la Chiesa deve assolutamente orientare la sua esistenza alla costruzione della pace attraverso un dialogo permanente e costruttivo con altre esperienze religiose. Si tratta di una sfida impegnativa che richiede un superamento di forme del pensiero teologico ereditate dal passato e di riconoscere che Dio convoca ogni comunità alla costruzione di un mondo pacificato. Su questa linea si poneva il Progetto per un ethos mondiale di Hans Küng, ideato in forma di teologia ecumenica per la pace e basato su una tesi divenuta senso comune: «Non vi può essere convivenza umana – scriveva il teologo svizzero – senza un ethos mondiale delle nazioni; non vi può essere pace tra le nazioni senza pace tra le religioni; non vi può essere pace tra le religioni se non c’è dialogo tra le religioni».

Allo stesso modo, il Documento di Abu Dhabi sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune e l’enciclica Fratelli Tutti di papa Francesco rappresentano oggi punti centrali per dare vita a un pensiero capace di tracciare sentieri di collaborazione e dialogo tra religioni, e di opporsi alla cultura bellicista e alle politiche di riamo.

È questo l’orizzonte cui chiama il documento conciliare Gaudium et spes, che negli ultimi numeri invita a una collaborazione a tutto campo per coltivare una famiglia umana pacificata, attraverso un dialogo tra chiese, religioni, cultori di valori umani, e persino i persecutori della chiesa (n. 91 ss.). Essa richiama infatti la forza del perdono e della riconciliazione come condizioni necessarie per la costruzione di una «pace giusta e duratura».

 

Sebastiano Serafini (Parroco a San Tommaso di Canterbury, Lido San Tommaso Tre Archi

Docente di teologia sociale e bioetica

Istituto Teologico Marchigiano di Ancona - Pontificia Università Gregoriana di Roma)

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