Archivio Notizie dal Territorio
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Riflessione sulla figura di San Giuseppe, nell'anno a lui dedicato. - di Adolfo Leoni
Ho conosciuto un grande artigiano. Era tappezziere. Aveva studiato a Perugia. S'era formato con gente di valore. Copriva e rifiniva divani, poltrone, tende. Poteva trasformare ogni cosa in oggetto bello. Aveva le mani d'oro. Abitava una casa sulla cima di uno dei tre colli di Montegiorgio. Si chiamava Giuseppe. Il 19 marzo di ogni anno sua madre Rosa dava una festa. Preparava “calcioni” per gli amici di suo figlio. Non ricordo se quella data fosse onomastico o compleanno. Comunque: Giuseppe era al centro. Quell'uomo, quell'artigiano, mi torna in mente oggi, scrivendo questa rubrica e avendo sotto mano la “Patris Corde”, la lettera apostolica di papa Francesco in occasione del 150° anniversario della dichiarazione di San Giuseppe quale patrono della chiesa universale. Ma non voglio parlare di religione o di fede, di Sacra famiglia o dell' “Ombra del padre” come fu definito il falegname di Nazareth. Voglio parlare di lavoro. Di artigianato. Di uso delle mani. Dell'onestà. Del prezzo giusto. Voglio parlare di un esempio che ci viene riproposto come modello per questo anno di svolta. 2021: anno giuseppino. Giuseppe aveva una bottega a Betlemme. Lui era un naggar (che in ebraico significa falegname, carpentiere). Una bottega molto avviata perché... Perché dal suo laboratorio uscivano pezzi unici e di pregio: tavoli, sedie, sgabelli, porte, infissi ed anche travature. Qualcuno scrive che Giuseppe costruisse anche tetti. Poi, alla ricerca della donna promessa, si spostò a Nazareth e il primo incontro con Maria lo fece davanti ad un pozzo, anzi davanti ad un secchio. Un secchio troppo pesante e troppo poco capiente. Ci mise poco a sostituirlo con uno più leggero e più capace. Maria gli sorrise per questo. In Galilea, Giuseppe s'era portato gli strumenti da lavoro. Aveva riflettuto che lì poteva formare famiglia. Accadde proprio così. Aprì una nuova bottega, riprese a fabbricare oggetti. La sua fama si diffuse in Galilea ed oltre. Lavorava molto, gli piaceva farlo, ne era felice. Poteva partecipare alla creazione. Ogni taglio del legno gli ricordava la vicinanza di Adonai (il Signore). Il lavoro per lui era canto e preghiera, come millenni dopo accadeva nei laboratori di seta e nei lanifici del nord Italia raccontati nel “Cavallo rosso” di Eugenio Corti.
Giuseppe non era un uomo giusto. Era il “giusto”. Sempre. Giusto nel prezzo, mai sopra le righe; giusto nel rispetto delle consegne; giusto nell'opera realizzata. Il suo lavoro gli conferiva un ruolo nel villaggio abitato. Così com'era stato a Betlemme dove era nato, a Nazareth dove s'era spostato, nella Terra di Gosen dov'era fuggito con i suoi per sottrarsi ad Erode. Aveva le mani forti, callose, ruvide. Capiva, lui ultimo discendente della schiatta regale di re Davide, che solo il lavoro conferisce dignità alla persona, «non sono i doni, le regalie, non il vivere da parassiti, ma il vivere del lavoro. Un uomo o una donna, quando non hanno lavoro, si sentono male, sentono che gli viene tolta la fonte della loro dignità», disse un giorno il cardinal Bergoglio. E Giuseppe, solitario e taciturno, si apriva quasi solo con i bambini, insegnava loro a tirare di pialla, ad incastrare tavole, ad usare il martello.
Fece anche questo con suo figlio Gesù. Gli insegnò il proprio mestiere.
Un esempio di laboriosità, di attenzione, di serietà. Può far bene ripensarci proprio oggi, dinanzi a una politica, una economia, una società che appaiono senza riferimenti.
Giovedì, 7 gennaio 2021
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