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Un libro di Stanley Laszlo Jaki sul rapporto tra scienza e fede
di Antonio Scacco*
ROMA, sabato, 31 marzo 2012 (ZENIT.org).- Cristo e la scienza (Christ and Science, 2000), Fede & Cultura, (Verona 2006) è un agile e denso volumetto di Stanley Laszlo Jaki, sacerdote cattolico ungherese, laureato in teologia e fisica e "Distinguished Professor" alla Seton Hale University di South Orange, nel New Jersey, scomparso il 7 aprile del 2009
Il libro non parla di fantascienza, ma ritengo ugualmente utile segnalarlo all'attenzione dei lettori, perché smentisce un luogo comune di cui la "vulgata" laicista è madre, cioè che il Cristianesimo e la Chiesa cattolica sarebbero contro la scienza e il progresso.
In realtà, sono stati proprio essi a consentire all'Occidente, a partire dal Medioevo, sprezzantemente denominato come "periodo dei secoli bui", di sopravanzare il resto del mondo. Apparentemente, sembrerebbe una tesi insostenibile, dal momento che Gesù Cristo non solo non ha mai parlato di scienza, ma, proclamando, a chiare lettere e in diverse circostanze, che il Suo Regno non era di questo mondo (Gv 18,36), ha anche indicato ai suoi discepoli come meta finale non l'aldiqua, ma l'aldilà.
Tuttavia, è innegabile che la predicazione di Gesù, nonostante il suo carattere escatologico, ha avuto un impatto diretto su ciò che l'uomo fa su questa terra. Si pensi agli ospedali, che sono esistiti perché esistevano i seguaci di Cristo. «Voltaire - scrive Jaki - non poteva nascondere la sua ammirazione per le Sorelle della Carità, un fenomeno che il mondo non era in grado di produrre. Questi sono stati i frutti derivanti dall'appartenenza di Cristo ad un altro mondo, rivelatisi estremamente proficui per questo mondo» (p.9). La verità, che tanti illustri personaggi, a partire da Sigmund Freud, hanno tentato di misconoscere o di nascondere, è che Gesù è «il Salvatore nel senso più ampio e universale del termine, […] si può logicamente dedurre che in qualche modo Cristo abbia portato anche alla scienza un po' di redenzione» (p.13).
Di quest'immagine di Cristo di grandezza cosmica si sono occupati Paolo di Tarso (Ef 1,23) e Teilhard de Chardin. Tuttavia, essi non sono riusciti, secondo Jaki, a farci percepire la relazione positiva che intercorre tra Cristo e la scienza: «Parlare, come fa Paolo, di "Troni, Dominazioni, Principati, e Potestà" potrebbe avere un sapore di mitologia e demonologia piuttosto che di sana cosmologia, […] se accettiamo quanto afferma Paolo, non abbiamo altra scelta se non di accettare la pienezza cosmica di Cristo in questa luce presumibilmente molto anti-scientifica» (p.16). Non meno severo è il giudizio nei riguardi di de Chardin, il quale «ci ha parlato dell'universo più da mistico che da teologo, ancor meno da filosofo e certamente non da scienziato» (p.18).
Chi, invece, riesce a stabilire una relazione positiva tra Cristo e la scienza, è - secondo il sacerdote ungherese - Isaac Newton e non tanto per la sua fede nel Dio di Gesù: non credeva, infatti, nella Trinità, ma non era neanche un deista à la Voltaire, quanto per le tre leggi, su cui si basa la sua scienza. Di queste tre leggi, solo della terza si può attribuire la paternità a Newton, mentre il padre della seconda è Cartesio. E la prima? E qui sta la sorprendente rivelazione, il cui merito va al lavoro eroico e meticoloso del fisico francese Pierre Duhem: «Con suo grande stupore, e con il disappunto di coloro che non nutrivano alcuna simpatia per il Medio Evo e il Cattolicesimo, Duhem scoprì che la prima formulazione della prima legge di Newton risaliva alla Sorbona dell'inizio del XIV secolo, e in particolare a Giovanni Buridano» (p.22).
Come si sa, la prima legge parla del moto inerziale, la cui formulazione rimanda al concetto teologico di un mondo creato dal nulla e nel tempo. È evidente, allora, che le grandi menti della civiltà greco-romana non potevano concepire una tale legge: «Aristotele e Tolomeo erano entrambi, come tutti gli altri eruditi dell'antichità pagana classica, eternalisti: per loro il mondo era increato, privo di inizio e di fine» (p.24). Conseguentemente, l'universo non era solo l'essere supremo, ma il supremo essere vivente: il mondo non era un semplice manufatto, un oggetto che si potesse smontare ed esaminare, come facciamo noi, pezzo per pezzo, ma un essere animato da una anima mundi. Siamo, dunque, di fronte ad un'interpretazione panteistica della natura, che non permette di formulare le leggi del moto, concepibili solo in presenza di un Essere completamente trascendente alla natura, il quale dà origine al mondo con un Suo libero atto creativo.
Ma il monoteismo non basta da solo a spiegare le origini della scienza. I musulmani, ad esempio, non riuscirono ad effettuare il salto in avanti, pur avendo studiato le opere di Aristotele per cinquecento anni e avendone composto parecchi commenti. Lo stesso discorso vale per i pagani. Anch'essi erano, in un certo senso, monoteisti, anch'essi credevano nell'unigenitus o, in greco, monogenes: «Definire monogenes o unigenitus un essere che era allo stesso tempo anche un uomo in carne ed ossa era un'operazione tutt'altro che banale nel contesto pagano classico, nel quale […] l'universo, il cosmo, il to pan erano anch'essi detti monogenes o unigenitus.
Di conseguenza, se un pagano istruito, come Plutarco, contemporaneo ma più giovane di Giovanni Evangelista, voleva diventare cristiano, doveva rinunciare alla propria fede panteistica nell'universo come monogenes o unigenitus. Egli si trovava di fronte a una alternativa: "il figlio unico" doveva essere o Cristo o l'universo. Questo voleva anche dire che diventando seguace di Cristo un pagano si collocava in netta opposizione con l'universo inteso come l'essere supremo di un sistema emanazionista, che fu sviluppato nel modo più articolato nell'opera di Plotino» (p.28).
La svolta, dunque, nella storia della scienza avviene solo quando il monoteismo è rafforzato dalla cristologia. Certo, la vivacità intellettuale non mancò nel mondo pre-cristiano. Nell'antica India, ad esempio, ebbe origine il sistema di numerazione decimale e l'antica Cina fu la patria dell'invenzione della stampa a blocchi, dei razzi, dei magneti e della polvere da sparo. Ma nessuno, in queste sedi di grande civiltà, andò neanche vicino a scoprire la legge del moto inerziale. Lo stesso si può dire dell'antica Babilonia e ancor più dell'antico Egitto, dove non mancarono gli ottimi ingegneri e gli abili artigiani e dove fu inventata la scrittura fonetica. Ma - spiace dirlo - queste Nazioni vanno catalogate tra i luoghi in cui si ebbe una clamorosa "mancata nascita" della scienza.
E che dire dell'antica Grecia? Non è forse la culla della razionalità, non ha prodotto la geometria euclidea, non ha dato al mondo due geni dell'astronomia: Eratostene e Aristarco di Samo? Almeno la Grecia avrebbe, dunque, le carte in regola per essere indicata come il vero luogo d'origine della scienza ben prima della nascita di Cristo. Ma - avverte Jaki - bisogna vedere che cosa s'intende per vera scienza: essa è «lo studio dei corpi in movimento e degli aspetti esclusivamente quantitativi del loro moto. Possiede la scienza, quindi, chi possiede le leggi del moto; ma questa scienza rimase al di là della portata delle più grandi menti greche; pertanto, anche la Grecia divenne uno dei luoghi in cui si assistette alla mancata nascita della scienza. La scienza ebbe una sola vera nascita, la cui culla fu la cristianità occidentale» (p.31).
Di fronte a questa verità lapalissiana, si rimane stupefatti nel constatare il crescere e il diffondersi, attraverso i secoli, del pregiudizio secondo cui c'è antitesi tra Cristo e la scienza, antitesi che spiegherebbe la mentalità anti-scientifica della Chiesa. La risposta del nostro Autore è che ciò è dovuto, in parte, alla lotta accanita, condotta contro il Cristianesimo dai rappresentanti dell'Illuminismo e dei suoi epigoni, ma, in parte, anche all'indifferenza dei cattolici ai fatti storici che li riguardano e, per quel che concerne le origini della scienza, alla grande scoperta di Pierre Duhem.
*Antonio Scacco è stato insegnante ed è un intellettuale che, fin dagli Anni Settanta, è attivo nel campo di studi sulla letteratura di fantascienza; fondatore di riviste ("THX 1138", "Future Shock", "Malacandra"), animatore di dibattiti e autore di numerosi libri e saggi tra cui Il gioco dei mondi (1985, in collaborazione con Vittorio Catani ed Eugenio Ragone),Fantascienza e letteratura giovanile (1988, vincitore del I Premio per la Saggistica al XV Italcon, di S.Marino), Educazione tra le stelle (1992), Fantascienza Umanistica dell'Editore Boopen (Pozzuoli, ottobre 2009).
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