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Chiamati ad essere "preti del proprio tempo"
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L'Arcivescovo Rocco consegna alcune riflessioni maturate dopo gli incontri avuti nelle vicarie con tutti i sacerdoti e diaconi della nostra Chiesa locale

 

Prot. N.  480/2020       Fermo, 16 novembre 2020

 

Carissimi presbiteri e diaconi,

 

nei mesi di settembre e ottobre ho partecipato alle riunioni di tutte le vicarie. Ho fatto perciò l’esperienza preziosa di vedervi veramente tutti, nei vostri territori e nella forma abituale dei vostri incontri che senza dubbio facilita la fraternità e lo scambio reciproco.

Vi raggiungo a mezzo lettera per esternare alcune riflessioni conseguenti all’ascolto e al dialogo intrattenuto con voi e tra voi, dialogo che ha avuto al centro la fede, il nostro essere preti e diaconi e la pastorale nel tempo del Covid. Ho avuto conferma che siamo chiamati ad essere “preti del proprio tempo” (Don P. Mazzolari), pienamente coinvolti nelle circostanze spesso drammatiche causate dall’emergenza sanitaria. Inseriti nelle parrocchie, “vicini alle case” dei nostri fratelli e sorelle, condividiamo il peso e le difficoltà delle famiglie, la cui tenuta, anche psicologica, è messa a dura prova. Non stanchiamoci di sostenerle e di annunciare loro il Vangelo, perché non ci sono scorciatoie magiche o miracolistiche per superare questa fase ma solo perseverando nella fede nel Signore salveremo la nostra vita (cfr. Lc 5, 19). Il contagio ha colpito anche preti, religiosi, diaconi, seminaristi, operatori pastorali della nostra comunità diocesana, giovani e meno giovani, perciò chiedo di essere vicini in particolare anche a questi nostri fratelli, nella preghiera e nell’amicizia.

 

Nelle riunioni di vicaria abbiamo cercato di leggere questo tempo in modo sapienziale per comprendere la volontà di Dio, rifiutando letture pessimistiche o, peggio, complottistiche che, complici anche alcune emittenti cristiane, creano solo confusione e paura. Ho percepito in voi il coraggio di aver fiducia nel futuro, ma anche un certo disorientamento, legato soprattutto alla sensazione di inutilità che si potrebbe provare quando non ci si può spendere appieno per la comunità. Quante volte abbiamo ripetuto che la carità pastorale è la salvezza della nostra vocazione? Rientrare in canonica a fine giornata stanchi, spossati ma contenti per aver ancora una volta spezzato e offerto il nostro corpo con Cristo per il popolo di Dio è una sensazione che ci accomuna e ci fa dire incessantemente “grazie” al Signore per averci chiamati al suo servizio.

Ora, se da un lato il nostro impegno sembra mutilato dal Covid, dall’altro siamo certi che il Signore non ci abbandona e ci sostiene anche nei passaggi difficili della storia. Vorrei dirvi perciò che vi incoraggio e vi sono vicino; che il nostro essere presbiteri e diaconi è molto più del nostro agire, per quanto preziosissimo; che questo tempo non va sprecato ma accolto, scrutato, meditato, offerto in ginocchio davanti all’Eucaristia; infine, che mai come in questo momento dobbiamo rinsaldare il legame tra noi, rafforzato dal vincolo sacramentale. La fragilità che stiamo sperimentando va sostenuta dalla fraternità.

Per questo motivo vi esorto a valorizzare di più le nostre riunioni per aprire il cuore, per mettere in comune anche i contraccolpi emotivi e la debolezza che come uomini stiamo sperimentando. Superiamo – se ci sono – le barriere che talvolta persistono nei rapporti tra noi; nessuno, meglio del nostro fratello presbitero o diacono, che magari lavora nel nostro stesso territorio, può comprendere le fatiche e le gioie del nostro essere ministri ordinati.

 

Condivido una sintesi, forse un po’ grossolana, di alcune convinzioni che ho sentito esprimere durante questi ultimi mesi. Ne riporto tre:

 

aspettiamo che passi l’emergenza sanitaria per ritornare alla vita pastorale tradizionale

viviamo la pandemia riproponendo con modalità diverse, a causa delle limitazioni, le consuete iniziative parrocchiali

lasciamoci interpellare dal tempo presente per ripensare una nuova evangelizzazione e nuovi processi pastorali.

 

La prima posizione non è condivisibile perché incoraggia la passività e lo sconforto, supponendo che non si possa far tesoro di ciò che stiamo vivendo. Ragionando così non scruteremmo i segni dei tempi che il Signore ci sta indicando, cioè i semi di bene e di Vangelo che pure stiamo incontrando. Ne cito solo alcuni: la testimonianza degli operatori della sanità, la solidarietà e la consolazione offerta da tante donne e uomini che vengono incontro a chi è nel bisogno, la testimonianza eroica delle famiglie, il rispetto dell’altro e la sollecitudine per il bene comune che l’adozione delle precauzioni stanno facendo crescere anche nelle giovani generazioni… e tanto altro ancora. Attendere passivamente che passi la tempesta ci rende schiavi del passato e delle modalità rassicuranti che eravamo abituati a reiterare nel tempo ma questo non è ciò che il Papa chiede alla Chiesa in uscita.

 

La seconda posizione è stata sperimentata da molti in occasione della prima “ondata” e durante il confinamento. Molti sacerdoti, diaconi, laici si sono ingegnati in ogni modo per mantenere vivi i contatti con famiglie e parrocchiani. Abbiamo sperimentato come le nuove tecnologie, forse troppo spesso demonizzate, possono essere un validissimo e a volte unico ausilio per l’annuncio del Vangelo. Ne abbiamo fatto buon uso nella catechesi e soprattutto per diffondere nelle comunità la celebrazione Eucaristica quando non si poteva in presenza del popolo di Dio. Per tanti adulti, bambini, giovani e anziani, è stato rassicurante riconoscere in video il parroco mentre spezzava il Pane della Parola e dell’Eucaristia. Come la didattica a distanza si sta imponendo nel mondo della scuola, è inevitabile che tale modalità continuerà ad accompagnarci ancora nell’immediato futuro.

Al riguardo vorrei esprimere tre raccomandazioni. La prima, per ricordare che la forza del rapporto umano non è surrogabile dagli strumenti tecnologici seppur avanzatissimi, per cui non trascuriamo, quando possibile, di privilegiare l’incontro con le persone dal vivo. La seconda riguarda la celebrazione dell’Eucaristia che, come ho già avuto modo di ricordare durante il confinamento, essendo fonte e culmine della vita cristiana, ha bisogno, appunto, di una vita cristiana perché sia fruttuosa; non accontentiamoci, perciò, della “copertura” della Messa ma sosteniamo in ogni modo possibile la vita cristiana delle nostre famiglie con le gioie e i dolori che la caratterizza. Infine, non essendo uomini soli al comando, invito a coinvolgere sempre di più, nella riflessione e preparazione delle iniziative, i vostri operatori pastorali, incoraggiandoli a superare a loro volta timori e smarrimenti.

La sfida che ci attende, a mio avviso, è data dalla terza prospettiva. Nell’accompagnare il popolo di Dio nei modi e i tempi resi possibili dalle regole sanitarie, avvalendoci - come appena detto - di ogni strumento adatto, non dimentichiamo che stiamo vivendo un tempo opportuno per ripensare una conversione missionaria della nostra pastorale,  perché, come ci ha ricordato il Papa, “peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi”. Non si tratta di aggiustamenti legati al momento contingente ma scelte che devono incidere strutturalmente e che caratterizzeranno il futuro delle nostre comunità.

Per comprendere i contorni di tale svolta, per ora ancora sfumati, nei nostri incontri ci siamo fatti aiutare anche da alcuni sussidi. Abbiamo bisogno di continuare e approfondire questa riflessione che, lo ricordo ancora una volta, va fatta insieme, coinvolgendo i fedeli laici in un cammino veramente sinodale. Forse è ancora prematuro indicare forme precise e modi nuovi del rinnovamento pastorale che ci attende ma provo a delineare alcune scelte:

 

Condivido, come prospettiva di fondo, l’invito di Mons. G. Sigismondi a “passare dal sistema di irrigazione «a pioggia» delle iniziative di mantenimento a quello «a goccia» dei cammini di accompagnamento”. Siamo chiamati a programmare meno iniziative e a vivere maggiormente l’esperienza della prossimità alle persone.  

 

Questo tempo, poco adatto ai grandi numeri, può essere propizio per privilegiare la formazione dei formatori che, a tempo debito, darà i suoi frutti. Tra questi, le famiglie, che devono diventare sempre più nostre alleate nel cammino di iniziazione cristiana.

 

È necessario uno sforzo maggiore per integrare nell’evangelizzazione le tematiche legate alla Pastorale della Salute e alla Dottrina Sociale della Chiesa, prepotentemente chiamate in causa dal confronto con le problematiche della malattia e della morte, del lavoro, della responsabilità per il bene comune, della solidarietà. Tali questioni non possono rimanere periferiche nei processi formativi, indipendentemente dalla fine dell’emergenza sanitaria, se non vogliamo che l’esperienza cristiana non dica nulla alla vita concreta delle persone.

 

Richiamo quanto detto nell’omelia dell’anniversario della Dedicazione della nostra Cattedrale, lo scorso 27 settembre: Parola, comunità e fraternità sono i pilastri da cui oggi ripartire ma anche i riferimenti essenziali e permanenti che ci accompagneranno in futuro:

 

la Parola perché, essendo la storia luogo teologico della Rivelazione, ci illumini e ci renda certi della guida del Signore pur nel cammino che ha il sapore della precarietà del deserto più che il gusto rassicurante dei luoghi a noi familiari; invito preti e diaconi, ministri della Parola, a non abbandonare la pratica della lectio divina, nelle sue varie forme, anche con il popolo di Dio. E qualora fossimo costretti a non viverla in presenza, non abbiamo timore di adottare le modalità streaming, anche per altre occasioni di preghiera.

 

La comunità, perché vincendo per primi noi preti la tentazione dell’autoreferenzialità, ci ricorda che la Chiesa è un’esperienza plurale. Peraltro, questo tempo, che sta svelando quanto antropologicamente siamo legati gli uni agli altri, nonché la necessità di essere corresponsabili e di prenderci cura delle persone e del creato, è prezioso perché rende credibile agli occhi del mondo la dimensione comunitaria della fede, il nostro essere Corpo di Cristo. Non lasciamo che la pandemia dell’individualismo ci corroda dall’interno e puntiamo a far crescere uno stile veramente ecclesiale.

 

Da una comunità in continuo ascolto della Parola possono nascere nuove relazioni di fraternità che si aprono alla solidarietà. Nel tempo del distanziamento, lo sforzo della carità è nel cercare le persone con tutti gli strumenti possibili per non farle sentire sole. Specie con i giovani, abbiamo bisogno di ripensare rapporti nuovi che mai abbiano il sapore del giudizio ma, con sguardo accogliente, sappiano percorrere con loro il cammino accidentato del dubbio per scoprire Cristo unica risposta affidabile alle domande più profonde del cuore dell’uomo. La scommessa sarà vinta quando i giovani conosceranno la verità che è Cristo e scopriranno di essere veramente liberi perché amati (cfr. Gv 8, 32). Come Chiesa non possiamo rimanere tranquilli se non sappiamo intercettare le loro domande.

 

Carissimi, il futuro che ci attende forse ci chiederà di pianificare meno e cogliere ogni situazione imprevista come occasione, di essere meno preoccupati di “finire il programma” del catechismo e di essere più attenti alla vita delle persone, di intercettare quanti in questi mesi hanno abbandonato la vita ecclesiale piuttosto che accontentarci dei “pochi ma buoni (?)”, di impostare finalmente la formazione come itinerario di vita cristiana e non un passaggio obbligato per la celebrazione dei sacramenti, di rendere ancor più corresponsabili i laici nella vita pastorale e preoccuparci meno noi preti di ciò che non è lo specifico del nostro ministero, infine, di valorizzare il tempo in più che potremmo avere a disposizione anche per pregare, leggere, studiare.

Le attuali normative limitano molto anche la mobilità. Sia anche questa un’occasione perché i nostri fedeli percepiscano che i loro sacerdoti “ci sono”, condividendo le stesse difficoltà delle famiglie, di studenti e insegnanti, dei lavoratori, degli ammalati. Il nostro «stare» al nostro posto contribuirà a tenere in piedi le nostre comunità.

 

Avviandomi alla conclusione, confido che, nel dialogo con i vostri Consigli Pastorali, arricchirete ulteriormente il cammino di riflessione avviato da queste mie considerazioni. Come sapete, sono stati programmati altri incontri di vicaria con la partecipazione di un laico per parrocchia. Se i limiti dell’emergenza sanitaria ci consentiranno di poterli portare a termine potremo dialogare ancora per approfondire questi temi.

Facciamo nostro l’invito di papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti a cercare una luce in ciò che stiamo vivendo nella parabola del buon Samaritano (Lc 10, 25-37), perché, come ci ricorda il Concilio “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (Gaudium et spes 1). Ai diaconi, in particolare, ricordo che nel ministero della carità vengono configurati a Cristo-servo. Non dimentichiamo gli ammalati e i loro familiari e stiamo vicini a quanti sono in difficoltà economiche per la pandemia. Le nostre Caritas parrocchiali siano un riferimento sicuro di quanti sono in difficoltà. In questo mese dedicato ai defunti, ricordiamo nella preghiera in particolare quanti hanno perso e perdono ancora la vita a causa del Covid.

 

Vi ringrazio ancora per la dedizione con la quale vivete il vostro ministero in questo frangente della storia dell’umanità, immersa nel mistero pasquale di sofferenza e, spesso, di morte. Approssimandoci alla fine dell’anno liturgico e ad un nuovo inizio, andiamo avanti con fiducia poiché nella speranza siamo stati salvati (Rm 8, 24), certi che il Signore non ci abbandona e sostiene con la sua la nostra croce.

 

Nell’augurarvi di vivere un buon Avvento, vi benedico di cuore assicurando a tutti la mia preghiera. Maria Assunta in cielo e i nostri santi patroni intercedano per noi

 

 

  Rocco Pennacchio

      Arcivescovo Metropolita di Fermo

 

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